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Su Dante Alighieri. Una vita di Paolo Pellegrini

Domenicale del Sole 24 ore9 Maggio 2021

In più d’uno, tra i saggi sulla vita di Dante usciti negli ultimi decenni, mi è parso di notare due difetti: la tendenza a colmare le molte lacune della documentazione d’archivio con congetture un po’ troppo spericolate circa i movimenti, le azioni, le letture, le idee del poeta; e la tendenza a sovrainterpretare, cioè a forzare i versi danteschi allo scopo di ricavarne informazioni biografiche. Per questo ho apprezzato, a suo tempo, il rigore e la prudenza della biografia scritta da Giorgio Inglese (Vita di Dante. Una biografia possibile); e, qualche mese fa, la solidità del Dante di Alessandro Barbero. Einaudi pubblica ora un’altra biografia, Dante Alighieri. Una vita di Paolo Pellegrini, che mi pare mossa da un’intenzione analoga: reagire alle letture troppo propense a contaminare storia e romanzo, o troppo «deterministiche», restando il più possibile aderenti ai documenti.

Scrivere una biografia di Dante significa da un lato dover prendere alcune decisioni relative al metodo, ovvero all’impostazione generale, e dall’altro doversi pronunciare su un numero considerevole di questioni puntuali molto intricate. Quanto al primo punto, c’è intanto da stabilire il valore da dare alle fonti antiche, cioè ai commenti trecenteschi alla Commedia, alle biografie scritte da Boccaccio e da Leonardo Bruni, alle notizie riferite dall’altro umanista romagnolo Biondo Flavio nelle sue Historiarum decades. Pellegrini dà particolare credito a queste testimonianze, e ciò influenza la ricostruzione della biografia dantesca soprattutto nel primo decennio dell’esilio, dall’affiliazione all’Universitas dei Bianchi alla discesa di Enrico VII. C’è poi come accennavo, sempre sul piano del metodo, da valutare se e in che modo le opere di Dante vadano adoperate allo scopo di dedurne notizie circa la sua vita. Qui mi pare che Pellegrini – come già Inglese e Barbero – metta giustamente un freno al diluvio di congetture fiorite in questi anni sulla base di dati testuali quasi sempre ancipiti, o sulla base di nessun dato. Sugli ultimi vent’anni di vita di Dante, il segmento più importante perché è quello in cui scrive le sue opere più grandi, sappiamo ancora meno di ciò che sappiamo dei trentacinque anni fiorentini: i documenti nei quali figura il suo nome sono pochissimi, perciò si spiega che il biografo cada in tentazione, e tratti la poesia e gli scritti teorici alla stregua di documenti. È una tentazione che produce soprattutto interpretazioni arbitrarie: che la menzione di questo o quest’altro personaggio nella Commedia voglia dire che Dante lo aveva appena incrociato nel suo peregrinare, o aveva soggiornato nei luoghi che l’avevano visto vivo; che il silenzio su un altro personaggio voglia dire, al contrario, mancata conoscenza, mancato contatto, o damnatio memoriae; che generiche allusioni ai cattivi costumi delle corti siano da intendere invece come meditate allusioni a una certa corte, a un certo principe; che il biasimo nei confronti di una certa corte o di un certo principe implichi il fatto che Dante non poteva risiedere in quei luoghi, altrimenti ‘non avrebbe detto certe cose’… Tutti questi sono paralogismi dai quali molto assennatamente Pellegrini prende più volte le distanze, anche appellandosi – e anche questa è un’opzione di metodo significativa – alla «prudenza dei grandi studiosi del passato», Michele Barbi su tutti.

Ciò detto quanto all’impostazione generale, si apre il territorio sterminato, e accidentatissimo, dei problemi puntuali. Perché, a parte il silenzio quasi perfetto delle testimonianze d’archivio, la ricostruzione biografica è complicata da due altre circostanze. Da un lato, la datazione delle opere dell’esilio è incerta, e incertissima – tanto da oscillare tra la fine del primo decennio del Trecento e la fine del secondo – quella della Monarchia, cioè del trattato nel quale Dante elabora la sua visione politica. Dall’altro, di un paio di opere ‘minori’, ma cruciali anche per la cronologia, è stata contestata – a mio avviso non irragionevolmente – l’autenticità, segnatamente della cosiddetta Epistola a Cangrande della Scala e della Questio de aqua et terra. Pellegrini giudica entrambe autentiche, e le adopera con intelligenza per illuminare gli ultimi anni di vita del poeta. Ultimi anni che da questa biografia sembrano essere stati più veronesi di quanto non si supponesse sinora, cioè più continuativamente veronesi: quasi tutti gli anni Dieci Dante li trascorrerebbe ospite degli Scaligeri. A corroborare l’ipotesi, Pellegrini aggiunge un documento noto ma a suo avviso non valorizzato a sufficienza negli studi, cioè una lettera indirizzata a Enrico VII che Dante avrebbe scritto per conto di Cangrande nell’agosto del 1312. Ipotesi interessante, forse troppo ardita, perché (sintetizzo osservazioni di Alberto Casadei che avrebbero meritato di essere discusse) è sempre difficile, in documenti tanto formalizzati, separare i tratti dello stile individuale dalla topica di genere; e in una città come Verona non dovevano mancare cancellieri all’altezza del compito. Ma Pellegrini attende a una nuova edizione critica della lettera, che frutterà certamente nuovi elementi di giudizio.

Quanto alla prima metà della vita di Dante, gli archivi sono più generosi, e il contesto storico-geografico più limpido. Eccellente l’idea di iniziare la biografia con un capitolo dedicato a «Firenze tra XII e XIII secolo», che spiega con chiarezza in quale città complicata e violenta sia cresciuto il giovane Dante. Questa non è una biografia intellettuale (ecco un libro bello e difficile da scrivere!), ma brevi schede sulle opere sono introdotte nei vari capitoli. Su ciò che le liriche dantesche possono dirci circa la cronologia dantesca (esempio: i due congedi di Tre donne, i testi intorno al Fiore, il sonetto per Lisetta) sono, devo dire, spesso in disaccordo con Pellegrini: cioè sarei sempre, sempre, sempre molto più cauto; così come su altre questioni di dettaglio, come l’interpretazione del sonetto di Cavalcanti Io vegno ’l giorno (troppe illazioni, da parte dei biografi, su questi quattordici versi) o come l’idea che gli eredi di Dante rinuncino alla “logica della faida” (serenamente contemplata negli statuti medievali, nelle cronache) in virtù di un incipiente scrupolo per il “bene comune”. Ma sono i normali, fecondi dubbi che ogni libro serio genera nel lettore.

Paolo Pellegrini. Dante Alighieri. Una vita, Einaudi, 22 euro.

 

 

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