Cultura e società

La rivista Il Mulino compie settant’anni

Il Mulino. Rivista di cultura e di politica compie settant’anni. Dieci anni fa, per i sessanta, avevo scritto le righe che seguono, che vanno ancora bene per spiegare in breve, a chi non lo sa, di che si tratta.

È il 1951, sei anni dalla fine della guerra, e un gruppetto di studenti universitari bolognesi ha l’idea di fondare una rivista, che sarà prima quindicinale, poi mensile, poi bimestrale, oggi trimestrale (ma c’è la rivista online). La maggior parte viene da Lettere, e a ripensarci oggi quella che stupisce è soprattutto l’età media: i fondatori – Nicola Matteucci, Luigi Pedrazzi, Federico Mancini tra gli altri – hanno meno di 25 anni.

Motore dell’iniziativa, il ventiquattrenne Fabio Luigi Cavazza, giurista, che riesce a convincere Giorgio Barbieri, presidente degli industriali bolognesi, a fare il piccolo investimento che è necessario per partire. La rivista si occuperà di cultura e di politica, e darà voce a intellettuali di varia estrazione (liberali, socialisti, cattolici di sinistra) che non si riconoscono né nel PCI, nella Bologna rossa del dopoguerra, né nella DC (ma Pedrazzi sarà in prima fila tra i collaboratori di Dossetti a Bologna). Quanto all’origine del nome «Il Mulino», che quattro anni dopo sarà anche il nome della casa editrice, grande è l’incertezza anche tra i bene informati. Potrebbe venire dal Mulino del Po di Bacchelli o, più prosaicamente, dal Forno Stella Pedrazzi, l’azienda della famiglia Pedrazzi che darà una mano a finanziare l’impresa. Oppure è soltanto una metafora, e vuol dire che al Mulino si macina cultura, nient’altro.

Se si confrontano i primi fascicoli della rivista con quelli più recenti, si resta colpiti dal fatto che le differenze sono pochissime. Piacevolmente colpiti. Cadono gli imperi, nasce l’Europa unità, spariscono PCI e DC, ma «Il Mulino» resta più o meno la stessa, un po’ come «La Settimana Enigmistica». È un buon termine di paragone, perché, come «La Settimana Enigmistica», anche «Il Mulino» è una rivista serissima e un po’ grigia, come sono quasi sempre le cose serie. Ed è chiaro che saggi con titoli come Le ragioni del contraddittorio nella deliberazione politica o Il destino americano del New Labour non sono esattamente calibrati sulle esigenze del lettore frettoloso. Ma sfogliando per esempio i numeri degli anni Cinquanta si resta ammirati di fronte alla qualità e all’importanza degli interventi: i saggi di Gino Giugni su lavoro e sindacato, quelli di Altiero Spinelli sul processo di unificazione europea, quelli molto belli di Luciano Gallino su letteratura e sociologia… E non si finirebbe più di citare, soprattutto con riguardo alle scienze sociali, un ambito nel quale la rivista e l’editore Il Mulino sono stati, in Italia, determinanti. E sfogliando i numeri degli ultimi anni si resta stupiti dal fatto che quella linea di serietà e di rigore è rimasta intatta. In Italia ci sono anche altre riviste ‘di cultura e di politica’. Ma le riviste di cultura sono spesso scritte nel gergo degli accademici, vogliono recensioni svelte e hanno un debole per la fuffa. E quelle politiche sono quasi tutte partigiane e maleducate. «Il Mulino», invece, ospita saggi articolati su questioni complesse (e un po’ noiose) scritti da persone competenti, e in buon italiano. Direi perciò che «Il Mulino» si avvicina più di ogni altra rivista italiana agli standard di eccellenza di riviste americane di dibattito come «The Nation» o «The Atlantic». Non saprei, nel panorama editoriale attuale, formulare un elogio migliore.

 

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