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Su “Le rime disperse di Petrarca”

Domenicale del Sole 24 ore14 Febbraio 2021

Non solo lo studente alle prime armi ma anche lo studioso non specialista inclina probabilmente a pensare che il Canzoniere sia una specie di monolito piovuto chissà come nella letteratura italiana del Trecento, una serie ordinata e compatta di 366 componimenti usciti un bel giorno dallo studio di Petrarca e passati di mano in mano prima attraverso copie manoscritte integrali e poi attraverso volumi a stampa, fino alle moderne edizioni commentate che si trovano nei nostri scaffali. Ma le cose non stanno così.

Petrarca era il principe della dispersione. A parte un’esistenza per i tempi movimentatissima, tra viaggi europei, sinecure ecclesiastiche e illecite passioni (non solo per Laura), ha scritto un numero impressionante di poesie, in volgare e in latino, così come ha scritto un numero impressionante di lettere (e nella dedica delle Familiari a Socrate dice di aver «consegnato a Vulcano», cioè di aver gettato nel fuoco «mille o più, tra poesie di vario genere e lettere familiari»: ma altre mille ne restano); ma in momenti diversi della sua vita, e soprattutto dopo la grande peste, attorno al 1350, ha saputo correggere questo talento per la dispersione grazie a un’opposta vocazione al riordino: e così hanno preso forma i libri delle Familiari, delle Senili, delle Sine nomine, così si sono organizzate in libro le Epistole metriche. E così si è costituito, per addizioni successive e successive rettifiche, il libro che oggi chiamiamo Canzoniere.

I Rerum vulgarium fragmenta – così recita la rubrica che apre il manoscritto autografo conservato alla Biblioteca Vaticana – hanno una storia complicata e affascinante che nell’ultimo secolo e mezzo gli studiosi hanno ricostruito in maniera capillare, una storia di inclusioni, esclusioni e riordinamenti interni. Da un lato, il libro nasce, nel corso di decenni, attraverso successive aggregazioni di testi: sono le varie forme identificate dai filologi, a partire dagli studi di Ernest Wilkins più di settant’anni fa. Dall’altro lato, l’ultima forma del Canzoniere, quella consegnata appunto al canzoniere vaticano, non contiene affatto tutti i componimenti volgari scritti da Petrarca: alcuni, anzi molti rimasero fuori, e formano l’ampio dossier delle cosiddette ‘rime disperse’.

Come identificare questi testi? In alcuni casi è facile. Sono (1) i testi che Petrarca trascrisse su certe carte ‘di servizio’ che sono giunte sino a noi grazie allo zelo con cui, alla sua morte, vennero salvate e poi custodite da amici e allievi, sino ad arrivare fortunosamente tra le mani di Pietro Bembo: testi che Petrarca compose a volte – come precisa nelle rubriche dell’autografo – «domino iubente», cioè sollecitato dal cardinale Colonna. Oppure sono (2) i pochi testi tramandati da un manoscritto non autografo, il Casanatense 924, che però attinge sicuramente ad altri perduti autografi petrarcheschi. Tra queste carte sparse, anche alcuni componimenti celebri, che per qualità sarebbero stati degnissimi di trovare un posto nel Canzoniere: per esempio la ballata Donna mi vène spesso ne la mente, o il sonetto Quella che ’l giovenil meo core avinse, che contamina felicemente modi colloquiali («ma nova rete vecchio augel non prende») e dotti riferimenti al mito («E pur fui in dubbio fra Cariddi e Scilla / e passai le Sirene in sordo legno, / over come uom ch’ascolta e nulla intende»). Ma l’una e l’altro alludono a un amore diverso da quello per Laura, a una misteriosa tentatrice, e può darsi che l’esclusione dal libro sia dovuta a questa deroga, a questa deviazione dalla strada maestra, ammissibile come licenza temporanea, ma non in sede di riepilogo e racconto, dentro il monumento di parole che Petrarca edifica per Laura.

Tolte queste poche disperse ‘sicure’, grande è l’incertezza sul resto, e grande la difficoltà, perché per quanto si presti attenzione allo stile, alla lingua, al metro, al contenuto, è difficilissimo distinguere tra ciò che è di Petrarca e ciò che è invece di certi suoi precoci imitatori (giustamente uno specialista come Michele Feo, nel volume che qui si recensisce, avverte che «le peggiori delle vie investigative sono quella psicologica e quella stilistica»: e di entrambe si è abusato nel lavoro sulle disperse, almeno sino a qualche decennio fa); inoltre, nella tradizione manoscritta vanno sotto il nome di Petrarca decine e decine di testi certamente non suoi: si nobilitava infatti un’attribuzione oscura, o un’adespotia, surrogandole un’attribuzione insigne (Petrarca nel Tre-Quattrocento come Dante nel Due-Trecento); e, meno sensibili alla authorship di quanto non si sia oggi, ci si impossessava delle poesie del maestro, registrandole sotto il proprio nome dopo sommari rimaneggiamenti (impressionante il caso di Domizio Brocardo studiato qui da Leporatti).

All’inizio del Novecento il filologo Angelo Solerti procurò un’edizione delle disperse che non andava troppo per il sottile, mettendo insieme testi sicuri, testi dubbi e testi sicuramente non petrarcheschi. Un secolo di ricerche e di edizioni ha reso tutti più cauti, e il canone-Solerti si è andato via via asciugando. Ciononostante, il dossier resta uno dei più problematici tra quelli che debba affrontare la filologia italiana. Tra le poche cose sicure c’è però questa: che il lavoro di riordino e di edizione non può essere fatto da un unico studioso. Così, all’Università di Ginevra Roberto Leporatti ha raccolto un piccolo gruppo di studiosi che lavoreranno a una nuova edizione ‘allargata’ del corpus, che comprenda non solo i testi certamente petrarcheschi ma anche quelli che la tradizione o parte della tradizione assegna a Petrarca: e sarà poi il commento a decidere caso per caso in merito alla paternità.

La sezione più cospicua di queste disperse ritrovate sarà formata presumibilmente da testi di corrispondenza. Petrarca esclude infatti molti di questi testi occasionali dal Canzoniere, sia nella sua forma definitiva sia in quelle provvisorie, sia i suoi sia quelli scritti «domino iubente», ed esclude tutti i sonetti inviatigli dai corrispondenti: una scelta che ci appare ovvia ma che ovvia non era (un contemporaneo di Petrarca, Franco Sacchetti, ospita nel suo diario-canzoniere autografo anche testi inviatigli da altri poeti). Eliminati dal libro, questi pezzi di tenzoni poetiche riaffiorano in altri manoscritti, con o senza i pezzi che insieme ad essi formavano la tenzone intera, con o senza la corretta attribuzione: sicché, ricostruendo questi dialoghi in versi, nel discorso sulle poesie di Petrarca finiscono per essere coinvolti molti dei rimatori italiani coevi, dall’amico Sennuccio del Bene ad Antonio Beccari, da Menghino Mezzani al misterioso, forse inesistente, «Stramazzo da Perugia».

Affrontare questi testi significa dunque affrontare il nodo del primo petrarchismo, tra secondo Trecento e primo Quattrocento, ed è per questa ragione che chiunque si occupi di filologia e storia della poesia italiana del tardo Medioevo dovrà consultare prima o poi questo libro: consultare, più che leggere dall’inizio alla fine, perché inevitabilmente si tratta di contributi molto settoriali, e in questo senso è stata un’ottima scelta quella di dedicare molte cure e molte pagine agli indici. Si sente soltanto la mancanza di un saggio introduttivo che spieghi al lettore lo stato dell’arte, magari raccontando bene che cos’è successo dalle Disperse di Solerti in poi, un po’ come ha fatto una ventina d’anni fa Paola Vecchi Galli curando la ristampa di quel volume. Ma immagino che un saggio del genere verrà con l’edizione.

Le rime disperse di Petrarca, a cura di Roberto Leporatti e Tommaso Salvatore, Carocci 2020 – 35 euro.

 

 

 

 

 

 

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