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Gianluigi Simonetti su “Elsa Morante” di René de Ceccatty

Domenicale del Sole 24 ore7 Dicembre 2020

Discutendo con Enzo Siciliano, Elsa Morante dichiarò una volta che scavare nella vita di uno scrittore può servire al massimo a divulgare «quello che uno non è». Dietro questa frase apparentemente paradossale fa capolino un’idea chiave della cultura letteraria moderna: l’opera d’arte non ha nulla a che fare con la vita del suo autore. Non solo perché è autonoma rispetto al ‘vissuto’ di chi la scrive, ma anche perché è solo lei che conta. «La vita privata di uno scrittore è pettegolezzo; e i pettegolezzi, chiunque riguardino, offendono», aggiungeva Morante; da affezionata lettrice di Proust, anche lei era convinta che un romanzo sia «il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». E in effetti se è vero che tutti i romanzi morantiani, al pari della Recherche, sono fittissimi di riferimenti autobiografici (di una Morante sottilmente e genialmente ‘iperbiografica’ ha parlato di recente Elena Porciani), è altrettanto vero che questa vita pare riscritta e riplasmata al solo scopo di poterla allontanare definitivamente da se stessi. Nella convinzione che l’io che vive nell’opera, l’io ‘diverso’, sia il solo a esistere davvero, il solo destinato a sopravvivere, il solo a pieno titolo reale.

Sul piano della teoria letteraria questi principi restano naturalmente validi (ed è bene ribadirlo oggi, in tempi poco inclini a riconoscere l’autonomia dell’arte). Ma appunto, esistono specialissimi casi di scrittori per i quali separare rigidamente la vita dall’opera rischia di far danno. Tra questi metterei quei romanzieri – come Proust, appunto, e come Elsa Morante – la cui negazione di ogni biografismo è troppo implacabile per non destar sospetti. Il loro è un realismo che potremmo definire ‘vendicativo’: sottrae dignità al mondo reale per risarcire un amore antico, e rigorosamente non corrisposto, verso la realtà stessa; e proprio per questo si nutre di manipolazione. Grandi fan dell’immaginazione romanzesca, miscelatori instancabili di verità e finzione, bugiardi raffinati e stregoneschi (Menzogna e sortilegio è il titolo del primo grande romanzo di Morante). Conoscere la biografia di questi autori non aggiunge nulla allo splendore della loro opera, ma può servire a illuminarci sul loro modo di creare, e più profondamente ancora sul funzionamento del loro immaginario.

La nuova biografia morantiana di René de Ceccatty, appena tradotta da Sandra Petrignani per Neri Pozza, e intitolata Elsa Morante. Una vita per la letteratura, ha il coraggio di affrontare questi nodi, anche se presenta più di un punto debole. C’è qualche errore di distrazione (il personaggio che Pasolini affida a Elsa in Accattone non si chiama Stella, ma Alina, e non è una prostituta; Tutto uno scherzo doveva essere il titolo della Storia, non del Mondo salvato da ragazzini). Alcuni giudizi sono opinabili (L’isola di Arturo come «suo unico indiscutibilmente grande romanzo»); altri non saprei sottoscriverli (come la bizzarra osservazione secondo la quale i romanzi morantiani manchebbero di editing; o quella per cui nessuno di questi «ha saputo essere all’altezza di una vita interiore tanto complessa…All’altezza della ‘vita vera’»). Il rinvio alle fonti non è sistematico e la bibliografia finale solo indicativa; l’impostazione del racconto, da biografia tradizionale e quindi rigorosamente cronologica, potrà apparire a qualcuno poco brillante, in un’epoca in cui dilagano le biografie romanzate (con salti spazio-temporali frequenti e incontri ravvicinati, magari ad alto tasso di finzione, tra biografo e biografato). Ma è comunque merito di Ceccatty mettere a disposizione del lettore una grande quantità di informazioni, alcune delle quali inedite, che rendono il libro da un lato appassionante in sé, dall’altro certamente utile a chiarire alcuni aspetti importanti dell’opera di Morante. Senza l’ossessione di illuminare definitivamente specifici luoghi oscuri, ma mettendone in rilievo gli sviluppi poetici potenzialmente interessanti. Così, non è probabilmente decisivo sapere con certezza chi fosse il padre biologico di Elsa – Augusto Morante, istruttore di riformatorio, forse omosessuale, o Francesco Lo Monaco, impiegato alle poste: è importante invece riconoscere che «dal momento in cui è venuta a conoscenza della possibilità d’un padre di facciata e di un padre biologico, Elsa ha integrato questa novità nel proprio immaginario» – con quel che ne consegue quando verifichiamo la centralità che assumono, nei suoi romanzi, le menzogne familiari, le omosessualità nascoste, le maternità deliranti, i bambini umiliati. Allo stesso modo, non è essenziale conoscere i dettagli del suo difficile rapporto coniugale con Moravia, ma è interessante rilevare che «il crudo realismo di Moravia, la sua concretezza, la razionalità astratta, il freddo intellettualismo, la lucidità e l’intelligenza sempre all’erta, come il suo cinismo, abbiano agito al contrario in lei, generando una fioritura mistica compensatoria con derive surreali» (e tanto più se scopriamo che lui «continuò fino all’ultimo a chiederle pareri sui suoi libri in preparazione, mentre lei non gli faceva mai leggere nulla di suo»). Non conta appurare se la giovane Elsa si prostituisse, come pure a volte ha raccontato; ma è utile verificare in questo racconto il rifiuto della normalità e l’estremistico bisogno di essere desiderata che attraversano tutta la sua opera.

Infine, alcuni dettagli non solo istruttivi, ma anche commoventi. Elsa innamorata di Luchino Visconti al punto da prendere inconsciamente un accento milanese quando ne parlava; Elsa che confessa a Giacomo Debenedetti il suo «antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo» – che è più di un desiderio, è una spinta alla scrittura («una mia rimpianta condizione di ragazzo, che mi sembrava di ricordare. E sempre meglio me ne ricordavo scrivendola»). Il ricordo di una serata in trattoria, teste Dacia Maraini, rivelatore di uno dei modi in cui Morante vedeva Pasolini (almeno prima della loro rottura nei primi anni Settanta): «Elsa allungava una mano attraverso il tavolo e con un dito gli sfiorava la fronte, come per scacciare un pensiero triste». E alla fine, e nonostante tutto, Elsa consacrata a una gigantesca solitudine: «i miei amori sono i personaggi della storia che scrivo, in questo tempo – credo di capire che non mi è permesso di avere altri amori». Il che ci riporta alla vita vera di questo genere di autori: ancora e sempre, la letteratura. Come spiega benissimo la sovraccoperta (d’autore) dello Scialle andaluso: «Per quanto creda di inventare, ogni narratore, pur nella massima oggettività, non fa che scrivere sempre la sua autobiografia. Anzi, non sono le cronache esterne della sua vita, ma proprio le sue invenzioni che spiegano il tema reale del suo destino. Lo spiegano, magari, a sua insaputa: e con suo stupore, o negazione, o scandalo».

René de Ceccatty, Elsa Morante. Una vita per la letteratura, Neri Pozza, pp. 412, euro 20

 

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