Cose che riguardano l'Italia

Tre modi di arrendersi

Il Mulino3 Agosto 2020

1.

Mi sono messo a collezionare scene di resa.

La letteratura è piena di eroi vittoriosi, di stoiche resistenze. Alla fine della resistenza non è detto che si vinca, ma intanto si resiste, e questi atti di abnegazione e coraggio finiscono nelle antologie scolastiche: Enea che fonda Roma dopo anni di pene e peregrinazioni; Orlando che si fa ammazzare a Roncisvalle, ma non volta le spalle ai Saraceni; gli assediati a Masada, a Varsavia, a Stalingrado. Uno impara che la storia, la civiltà, la fanno quelli che tengono duro.

Da qualche tempo, invece, hanno cominciato a interessarmi quelli che rinunciano alla lotta, che lasciano perdere. Sarà l’età, i cinquant’anni che si avvicinano, sarà la quotidiana pillola di demoralizzazione che involontariamente si assume vivendo in Italia (ci torno più avanti): sono attratto non tanto dagli sconfitti – anche se sono sempre stato ossessionato dalla perfezione del titolo di un libro di Cortázar, Modi di perdere – quanto da quelli che abbandonano il campo perché sanno di non poter vincere o, più profondi, perché sanno che vincere non si può.

Ho scritto un libro su Tommaso Labranca, uno scrittore e autore televisivo che a un certo punto della sua vita, verso i quarant’anni, scompare dai radar dell’editoria e dello show-business, e nel quindicennio successivo campa di collaborazioni occasionali, traduzioni e ghostwriting, pubblicandosi i libri in casa, e sognando una segregazione ancora più perfetta: «Io ho da sempre un solo progetto. Fare i soldi necessari a cancellare la dimensione pubblica dalla mia vita. Niente più treni, cinema e pizzerie. Villa isolata sul lago di Zurigo».

Labranca ha vissuto tutta la sua vita tra Milano e Pantigliate, un paesino dell’hinterland: non si è mai mosso di lì, e lì è morto nel 2016 a 54 anni. Invece mi sono accorto di avere uno speciale interesse per quel tipo di resa che implica un ritorno a casa, a una forma di vita leggermente meno evoluta, o – se meno evoluta suona male – leggermente meno complessa di quella alla quale, sino a un dato momento, si era tentato di aderire. Nelle pagine finali di Lo scrittore e il mondo c’è un poscritto intitolato La nostra civiltà universale in cui tra l’altro Naipaul parla di un romanzo della scrittrice iraniana Nahid Rachlin, Foreigner. La protagonista è Feri, una biologa iraniana che è emigrata negli Stati Uniti per studiare, ha sposato un americano e si è stabilita a Boston. È serena, realizzata. Ma un giorno, scrive Naipaul, dopo essere tornata a Teheran per un periodo di vacanza, «l’equilibrio si rompe». La famiglia d’origine la risucchia, tornano i ricordi. Il visto d’uscita tarda ad arrivare. La giovane donna ha una crisi: ripensa alla sua vita negli Stati Uniti, la scopre vuota, vana. Si ammala, va in ospedale e incontra un medico che ha avuto un’esperienza simile alla sua: «anche lui ha vissuto per un periodo negli Stati Uniti e al suo ritorno, racconta, ha trovato la pace visitando le moschee e i luoghi sacri per un mese». Feri capisce che non tornerà più a Boston: resterà in Iran e metterà il velo, e una volta guarita farà come il medico, andrà in pellegrinaggio nei luoghi sacri dell’Islam. Presa la decisione, si sente pacificata. «Una rinuncia immensamente appagante», commenta Naipaul; ma, continua, «sul piano intellettuale è discutibile: presuppone che là fuori, nel mondo frenetico, qualcuno continuerà comunque a lottare, a produrre i farmaci e le attrezzature medicali grazie a cui l’ospedale del dottore iraniano potrà proseguire la sua attività»[1].

Naipaul era affascinato da storie come questa perché lui, come molti, aveva fatto lo stesso cammino, dalla periferia al centro, dall’isola di Trinidad a Londra. A differenza di Feri, però, lui non aveva mai avuto la tentazione di tornare indietro. Indietro a cosa, del resto? Ai dodici mesi di estate tropicale di Trinidad? Recensendo i libri di Naipaul sull’India, Ian Buruma ha osservato che «un desiderio comune tra coloro che sono scappati dal buio abbraccio della tribù è trovare la via del ritorno»[2]. Naipaul non aveva nessuna tribù alla quale tornare, la sua opzione per la «nostra civiltà universale» non ha mai patito incrinature.

Dove avevo letto una storia del genere, la storia di qualcuno che lascia il deserto in cui è nato, entra nell’universale e poi però soccombe alla tentazione di tornare al suo deserto, di rinunciare?

Il romanzo più celebre di Brancati, Don Giovanni in Sicilia esce nel 1941, quando Brancati ha 34 anni. Il protagonista Giovanni Percolla vive in una casa di Catania con le tre sorelle zitelle, che lo accudiscono e lo venerano come le vestali di un culto, e passa il tempo andando a donne con gli amici, o meglio parlando di donne con gli amici. Questo gran parlare, infatti, non mette capo a niente. Giovanni – così come i suoi amici – è maldestro, rozzo, incapace di pensare alle donne come a qualcosa di diverso da serve (le sorelle) o da oggetti sessuali. Ma a un certo punto succede qualcosa. Giovanni s’innamora, riamato, di Ninetta, una bella ragazza di ottima famiglia. Breve fidanzamento, matrimonio, partenza per Milano, dove Ninetta ha famigliari e amici. Giovanni trova un buon lavoro e a poco a poco, superate le difficoltà iniziali, si abitua al clima, alle convenzioni e ai ritmi milanesi. Dimagrisce, smette di parlare in dialetto, si fa dei nuovi amici e dimentica quelli vecchi, quelli che a Catania gli tenevano compagnia durante le interminabili, frustranti chiacchiere «sulla donna». Ora Giovanni ha una moglie, un lavoro, una posizione sociale al nord. Fino a quando… Fino a quando la moglie gli propone di fare una breve vacanza in Sicilia. Giovanni accetta di buon grado: vuole riposarsi, ma soprattutto vuole far vedere ai catanesi l’uomo nuovo che è diventato.

In Sicilia li accolgono il tepore della primavera, la meraviglia della fioritura, e soprattutto le tre sorelle, che non hanno mai smesso di aspettare Giovanni, e che gli preparano i pranzi più abbondanti. E dopo il cibo il sonno, le ore di sonno post-prandiale, un’usanza che la vita frenetica di Milano gli aveva fatto dimenticare. Ninetta obietta, vorrebbe tornare dai suoi genitori: «Un solo minuto! – risponde Giovanni – Il tempo di entrare sotto le coperte, e uscirne. Lasciami levare questo capriccio! […]. Non dormirò mica, sta’ sicura!». Ma a poco a poco Giovanni cede all’abbraccio del letto, delle coperte, del caldo siciliano, dormirà, davvero, soltanto «un minuto». Al risveglio, la sorella Barbara è lì pronta a servirlo. Ma anziché un minuto sono passate cinque ore. Il romanzo finisce così, con Giovanni che si arrende al richiamo della terra natale, della casa che è veramente sua:

«Ninetta» aggiunse Barbara, nella penombra, «non ha voluto svegliarti, ed è andata in casa del padre».

«Nel tempo che staremo a Catania» disse egli, voltandosi bocconi e ponendo il mento sul cuscino caldo, «credo che sia meglio che lei dorma a casa sua, e io qui, a casa mia!».

2.

All’inizio dell’anno scorso mi ha telefonato il mio vecchio compagno di banco del liceo per propormi un viaggio in Molise.

Ne avevamo già parlato altre volte, in questi trent’anni di rarefatta ma affettuosa frequentazione post-liceale: Christian ha un pezzo di famiglia lì, i fratelli della madre e i figli dei fratelli, i cuginetti – ora uomini e donne di mezz’età – con cui ha passato tutte le vacanze estive nei suoi primi vent’anni di vita. Bravissime persone, stanno in un paesino dell’interno, nella valle del Trigno, qualcuno pendola per lavoro tra il paesino (che Christian e i suoi chiamano, senza ironia, paesello) e Termoli, dove c’è ancora uno stabilimento ex-Fiat, ora FCA. Christian lavora a Torino in un call center, vive da solo, prende le vacanze quando può, di solito a maggio-giugno perché i suoi colleghi le prendono a luglio-agosto, perché tutto costa di meno e perché a maggio-giugno non c’è quasi nessuno in giro, e questo è un conforto per la sua misantropia.

Christian è una delle molte ignote vittime del liceo classico. Ci è entrato per caso, come tanti, senza vocazione per lo studio, anzi senza un briciolo d’interesse per la letteratura, la storia, la filosofia e tutto il resto. Creativo, portato per il disegno, avrebbe dovuto fare il liceo artistico, o un istituto tecnico, e poi specializzarsi in grafica o design, o meglio ancora andare a bottega. Invece si è diplomato col minimo dei voti, per inerzia, ha fatto un rapido passaggio all’università, il tempo di capire che non era roba per lui, e poi per trent’anni si è arrabattato con lavoretti che lo hanno tenuto sempre un po’ al di sopra della soglia della povertà lasciandogli molto tempo libero per le sue due passioni: ascoltare dischi e guardare la TV. Niente libri, nessuna conversazione dotta, lavori saltuari poco soddisfacenti, moltissima TV, soprattutto la TV-immondizia del pomeriggio. Suona come la ricetta per la demenza, e invece quello che si è prodotto è il risultato contrario. Come quelle piante d’appartamento costrette in angoli scuri, che crescono fino all’ipertrofia nello sforzo di avvicinarsi alla luce, Christian ha sviluppato un’intelligenza e una sensibilità fuori del comune. Spesso mi sono detto che se solo potessimo trovare la formula che, senza l’apporto di quella che chiamiamo cultura, ha reso Christian il meraviglioso essere umano che è, se potessimo applicarla su larga scala, a tutti gli italiani, a tutti gli esseri umani, avremmo risolto il problema dell’educazione. Ma non si può.

E dunque, volevo andare con lui a fine maggio a fare un giro in Molise? Una settimana. Da qualche mese, lo sapevo, non aveva più la fidanzata. Due maschi single, una vacanza in Molise: ecco una cosa che chiaramente non andava fatta. Ma, mi ha spiegato, non sarebbe stata veramente una vacanza. C’era un progetto. Si era stancato del call center, dei colleghi molesti, dei pochi soldi, dell’anomia torinese: di lì a due anni avrebbe compiuto cinquant’anni, era l’ultima occasione per cambiare vita. Il piano era andare a vivere in Molise, tornare al paesello. «C’è ancora la casa dei miei nonni materni. La mansarda è libera, basta rimetterla a posto». Christian ha pazienza e talento per le piccole ristrutturazioni, non sarebbe stato difficile. E per campare? In realtà, mi ha spiegato, una volta risolto il problema della casa la vita al paesello non costa quasi niente. I cugini hanno l’orto, le galline, un’antica vocazione al baratto. In più, tra le tante cose che ha fatto in questi anni, Christian ha anche ottenuto un diploma di OSS, operatore socio-sanitario. La valle del Trigno è un posto da anziani, una piccola miniera d’oro per chi cerca impiego in quelle che si chiamano «mansioni di cura». E poi chissà, poteva anche esserci qualche occasione di lavoro più stabile, d’estate, nel ramo turismo-spettacolo: Christian suona la chitarra, fa il deejay alle feste. Più che una vacanza, la nostra sarebbe stata una perlustrazione, un’indagine per capire se tornare in Molise era davvero possibile, se il progetto aveva senso. Io più che altro dovevo fare l’autista, perché Christian non guida la macchina. Ho accettato, siamo partiti. È stato un bel viaggio, ho preso degli appunti, mi piacerebbe scriverne, un giorno.

Ma intanto: ecco un’altra resa da aggiungere alla mia collezione, presa dalla vita anziché dalla letteratura. Il nonno materno di Christian è arrivato a Torino nel dopoguerra dalle montagne del Molise. Le prime settimane ha dormito alla stazione di Porta Nuova: una volta, quando Christian era piccolo, gli ha mostrato il buco tra i binari che per più di un mese era stato casa sua. Poi è finito alle casermette di Via Tripoli, con gli altri immigrati. Poi ha cominciato a lavorare alla Fiat, e in quarant’anni è riuscito ad allevare due figli, a comprare l’appartamento in cui adesso vive la madre di Christian, e prima di morire a comprarne un altro, di appartamento, che Christian ha ereditato. E adesso eccolo suo nipote, il diplomato al liceo D’Azeglio, stessa sezione di Edoardo Agnelli, eccolo che si arrende, mette in affitto l’appartamento del nonno e torna al paesello.

A guardar bene, però, l’analogia con la resa di Giovanni Percolla o di Feri tocca appena la superficie. Loro hanno voltato le spalle a un mondo di possibilità – la Milano del dopoguerra, la costa est degli Stati Uniti – per rifugiarsi in un mondo di certezze, di sicurezze elementari. Hanno cambiato vita, anzi sono tornati alla vita di prima per viltà. Christian vuole andare in Molise perché la vita nella grande città ha smesso di offrire buone occasioni: non è che voglia arrendersi, è che non ha mai veramente avuto l’occasione di combattere.

3.

Sono uno di quelli a cui il lockdown è piaciuto. Vivo in centro a Firenze, in una casa con una grande terrazza, il mercato di Sant’Ambrogio a un passo. Insegno all’università, come molti di coloro che pubblicano le loro opinioni sui quotidiani o su riviste come questa (il che dà a quello che potremmo chiamare ‘il pubblico dibattito sulla vita’, anche sulla vita in quarantena, una piega un po’ irreale), ed è stato magnifico non dover prendere treni (sono un professore fuori sede), non incontrare certi colleghi molesti, veder avanzare la primavera nella città semideserta e ammutolita. Ho fatto le mie lezioni online, modalità ‘asincrona’, insoddisfacenti per me e, credo, per gli studenti. Lo stipendio è arrivato regolarmente. Triste avere gli affetti lontani: ma è stato un bel modo per dichiararsi amore con più esplicitezza, per sentirsi legati nonostante tutto, quasi eroici nelle videochiamate. E poi non c’era scelta, e ogni necessità che imbrigli il libero arbitrio è riposante. Dov’eri, Adamo? Ero al coronavirus.

Solo all’inizio ho commesso l’errore di autoprescrivermi dei sonniferi che poi ho scoperto rientrare nella famiglia degli antidepressivi, e che in capo a qualche giorno hanno avuto su di me, naturalmente, un effetto depressivo, con tentazioni suicidiarie e improvvisa crisi di pianto durante la telefonata con un collega. Cestinati i sonniferi, tutto è andato benissimo, anzi avrei continuato volentieri la clausura, come molti.

Quando dal «Foglio» mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su che cosa avevo fatto in questi due mesi e mezzo, che cosa mi aveva aiutato a vincere la noia, ho finito per scrivere un elogio del pop. Io avevo messo come titolo Volevo ringraziare, loro l’hanno intitolato C’è un nuovo pop, che non è del tutto appropriato, perché in realtà l’arte pop che ha addolcito il mio lockdown era tutt’altro che nuova: sono stati soprattutto i vecchi film, le vecchie canzoni ascoltate su Spotify; e poi c’è stata la radio, la meraviglia di Deejay chiama Italia su Radio Deejay dalle 10 alle 12: il pezzo finiva con una colonna intera di complimenti a Linus e Nicola Savino, per il regalo di allegria e intelligenza che mi hanno fatto ogni giorno. Un inatteso messaggio di Linus su uozzap – «Grazie Claudio, sei sempre troppo gentile!» (sono fan da anni, non era la prima volta che mi profondevo in pubblici elogi) – mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, forse anche per un rigurgito di benzodiazepine.

Quanto alla TV, il meglio sono stati i canali tematici, in particolare Iris e Rai Movie, dove gli unici esseri umani che si vedono sono attori per lo più morti. Da qualche parte c’era sempre un film di Totò, come succede d’estate; e a un certo punto, nella settimana prima di Pasqua, il clima ha cominciato a diventare veramente estivo, e col fatto che non si andava a lavorare l’illusione è diventata perfetta: Totò, Peppino e la malafemmina una domenica d’agosto, anche se era un martedì d’inizio aprile. Sul canale 34 di Mediaset sono passati a ciclo continuo film neri tipo Napoli spara o Il cittadino si difende e film semiporno con la Fenech, anche all’ora di pranzo: cose che da adolescenti, trent’anni fa, ci avrebbero fatto piangere di gratitudine. I canali dall’1 al 9 invece non si sono smentiti, perseverando nella loro mediocrità, a volte nella loro bassezza. Con un pubblico di sessanta milioni di italiani, e per una volta non solo di pensionati inerti, si poteva sperare che sarebbero stati fatti dei tentativi, che si sarebbe inventato qualcosa, non Beckett in prima serata ma qualcosa di intelligente sì. Invece si è andati avanti soprattutto con programmi registrati «prima del DCPM del 4 marzo 2020», giochi tipo I soliti ignoti o Guess My Age, o comicità esausta tipo Crozza. Anche i talk-show potevano essere ripensati un po’ meglio, dato che il virus ha allontanato il pubblico in studio plaudente, invece niente: colpa non tanto degli ospiti inadeguati, come si dice di solito, quanto dei conduttori in studio, e in realtà colpa del format che costringe tutti ad andare in TV un giorno sì e uno no a parlare e far parlare di argomenti su cui servirebbero settimane di studio: solo che non c’è tempo, e in realtà non c’è neanche un pubblico che chieda competenza, è solo entertainment. Il MES l’abbiamo voluto anche noi oppure no? L’Olanda è tra i fondatori della CEE oppure no? Dipende, ognuno ha diritto alla sua infondata opinione. Ecco una conseguenza della televisione 24 ore su 24 che trent’anni fa, quando tutto è cominciato, non avevamo previsto: la macchina va alimentata, e il carburante più economico per alimentarla sono le chiacchiere. Altra conseguenza inattesa, o quasi: le chiacchiere non solo fanno e disfano i governi, ma goccia a goccia cambiano le mentalità, per il bene e per il male, e in questi ultimi anni – è una percezione comune – piuttosto per il male che per il bene.

C’è stato più tempo libero, ho letto bene i quotidiani, un paio al giorno, tre nel week-end. Nel complesso, a colpire non è la qualità buona o cattiva dei singoli pezzi, ce ne sono anche di ottimi, un po’ ovunque; a colpire è la cattiva qualità dell’insieme: i titoli puerilmente enfatici, gli occhielli tirati via, i virgolettati inventati, la sciatteria della scrittura, gli errori di fatto, le pagine riempite di niente, gli intellettuali anticapitalisti laureati in Filosofia che pontificano su cose che ignorano perché devono scrivere il loro pezzo settimanale come da contratto. I giornali italiani: ecco un tramonto per cui – fatalità o insipienza, o tutte e due le cose – è bastato lo spazio di una vita, anzi di mezza vita.

Attraverso questi canali sempre aperti – i giornali, la TV, la rete – ho fatto la conoscenza con la più (come dire?) bizzarra classe politica che l’Italia abbia avuto in tutta la sua storia, fascismo compreso. Non che prima non la conoscessi, ero già rimasto incantato da Conte col santino di padre Pio, da Di Maio col sangue di san Gennaro, avevo già pensato al modo amaro in cui Naipaul commenta il tradimento di Feri nei confronti della civiltà universale: «Non si possono ottenere solo semplici amuleti: si devono accettare anche cose difficili: l’ambizione, l’impegno, l’individualità»[3]. Ma lavorando, stando quasi sempre fuori di casa, le loro facce non mi si erano mai veramente fissate sulla retina, non avevo mai veramente avuto modo di ascoltarli. Invece le giornate passate in casa hanno, inevitabilmente, moltiplicato i contatti con gli eletti di questa diciottesima legislatura; e anche con il piccolo esercito di mediatori – giornalisti, presentatori televisivi – che li accompagnava. La famosa «sfera pubblica». Ora, quello che nelle prime settimane del lockdown mi era parso un evento sciagurato ma limitato nel tempo, il tempo compreso tra l’affermazione del Movimento 5 Stelle e la sua prossima dissoluzione, con l’arrivo della primavera mi è sembrato prendesse i caratteri della normalità, quasi della necessità: non una parentesi ma l’evoluzione logica della storia italiana, dei costumi italiani, come se l’invasione degli Hyksos non fosse quella a cui stavo assistendo ma quella che per una trentina d’anni, tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, aveva tentato di fare dell’Italia un paese moderno; come se la parentesi miracolosa e incomprensibile, in un percorso orientato in tutt’altra direzione, fosse stata quella, e come se adesso finalmente avessimo ritrovato il sentiero. Il 2 giugno, ho ascoltato quasi con sollievo i gilet arancioni e i no-vax a Piazza del Popolo: come quando vanno a posto gli ultimi pezzi del puzzle, e il giocatore soddisfatto constata che l’immagine ricostruita combacia con quella stampata sulla scatola.

 

 

 

 

 

 

 

[1] V. S. Naipaul, Lo scrittore e il mondo, Milano, Adelphi 2017, pp. 523-24.

[2] Ian Buruma, The Missionary and the Libertine. Love and War in the East and West, London, Faber & Faber 1996, p. 115.

[3] Naipaul, Lo scrittore e il mondo cit., p. 525.

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