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Su “La lingua disonesta” di Edoardo Lombardi Vallauri

In una delle sue Note in margine a una vita assente, Paolo Milano, che negli anni Cinquanta viveva negli Stati Uniti, parla del disgusto per la pubblicità che provava camminando per la città, così ossessiva da oscurare «il passaggio della vita», e ricorda di aver composto per reazione questo slogan per una marca di carta igienica, slogan che immaginava «stampato a lettere di nuvole» nel cielo di New York: «È sottile come una velina, vellutata come una guancia di bambino, ma resistente come tela da aeroplano».

All’epoca di Paolo Milano la pubblicità diceva le cose: bisognava comprare quella carta igienica (o quello yogurt o quell’automobile) perché aveva queste o quest’altre qualità. Il disgusto, per l’intellettuale che ascoltava o leggeva gli slogan, nasceva dalla puerilità del messaggio; tanto peggio stavano quegli intellettuali che gli slogan erano pagati per inventarli (in La vita agra, Giovanna Ralli ammonisce il marito Tognazzi, che deve trovare un buono slogan per delle supposte: «A te ti frega la cultura, cerca di essere un po’ cretino, no?»).

Dopo decenni di apprendistato, il pubblico si è scaltrito, e dire le cose non basta più. Il linguaggio della pubblicità si è adeguato: non dice ma allude, presuppone, coinvolge l’ascoltatore o lo spettatore, più che come destinatario del messaggio, come complice, nel senso che sfrutta i suoi pregiudizi, le sue insicurezze, le sue meschinità, e glieli ripropone ammantati di glamour («Perché tu vali!»). Ma non solo la pubblicità: anche il linguaggio della politica. Si sono moltiplicate le occasioni d’intervento e di dibattito, ai tempi eterni di «Tribuna politica» si è sostituita l’istantaneità della rete, quel minimo di argomentazione a cui ancora gli italiani della mia generazione erano abituati ha lasciato il posto alle battute a effetto, ai meme.

Tutto questo è ovvio, è intorno a noi. Ma un conto è saperlo, un conto è capirlo. E per capirlo, un modo eccellente è leggere questo nuovo libro di Edoardo Lombardi Vallauri, forse il più bravo tra i linguisti italiani ad applicare gli strumenti della sua disciplina alle dinamiche della conversazione in cui siamo immersi.

Il libro ha una parte umanistica e una parte scientifica, entrambe accessibili anche al lettore non specialista. La parte scientifica dà conto delle ricerche svolte dai neuroscienziati allo scopo di spiegare che cosa succede nel nostro cervello quando processiamo un messaggio. La parte umanistica consiste in una limpida sezione teorica e poi nell’analisi di spot pubblicitari e stralci di discorsi politici ‘nuovo stile’ (soprattutto Salvini, Renzi, Di Maio), analisi condotta con metodo induttivo: dalla moltitudine dei casi Lombardi Vallauri risale alle norme, o meglio a una serie di etichette applicabili al vasto campionario della «lingua disonesta»: contenuti impliciti, impliciti linguistici, implicature, presupposizioni, vaghezza.

Tutti questi artifici – osserva lo studioso – «sono sfruttati per indurre una processazione meno vigile e meno accurata dell’informazione». Questa affermazione viene provata brillantemente attraverso decine di esempi che mostrano come la propaganda e la pubblicità condizionino il pubblico «in un modo che li induce ad agire sia contro il proprio interesse sia contro ciò che – se non fossero condizionati – riconoscerebbero essere il bene comune». Cosa significano slogan renziani come «Il passato non ci basta e il futuro è casa nostra» o «Questo Paese è in grado di fare tutto» o «Siamo un Paese forte, un Paese che fa i controlli»? Niente, siamo d’accordo. Ma leggendo La lingua disonesta, il suo cartesiano debunking, viene da obiettare ogni tanto che tirare una linea netta tra onestà e disonestà è proprio difficile. Perché artifici simili sono sempre stati adoperati, da oratori e retori, anche per la propaganda non del vizio ma della virtù. Se si va a caccia di contenuti impliciti, implicature, vaghezze e presupposizioni, cioè di quei dispositivi che possono mobilitare il lettore-ascoltatore «contro il proprio interesse», o contro ragione, un ricco bottino attende il lettore-ascoltatore dei discorsi, poniamo, di Kennedy («We choose to go to the Moon!»), o del discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington:

Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività….

E che dire di Gesù, del discorso della montagna? Sembra davvero che più un discorso vuol essere ispirazionale più dev’essere vago nei suoi presupposti: non si può chiedere concretezza a chi è lì per vendere sogni (anche bei sogni).

Quali sono le strategie che l’ascoltatore o il lettore comune, quello che non ha accesso al libro di Lombardi Vallauri, può attuare per difendersi da questo continuo attacco alla sua intelligenza? Qui l’ottimismo sembrerebbe fuori luogo, mentre la comunicazione si frammenta sempre di più in stati, tweet, meme, foto su Instagram: chi cerca scorciatoie per il pensiero oggi non ha che l’imbarazzo della scelta.

Si può osservare – scrive l’autore – che proprio la brevità obbligata, di cui i 140 (poi 280) caratteri imposti da Twitter sono l’emblema più noto, può far gioco a chi voglia esprimersi massimizzando la componente implicita. Infatti avendo spazio a volontà è più strano omettere una esposizione circostanziata di ciò che si vuole dire, mentre se i destinatari sanno che avevi pochi caratteri trovano più normale che tu ti esprima per le spicce.

Si obietterà che esprimersi «per le spicce» è sempre stata la strategia degli imbonitori, sia che vogliano vendere sia che vogliano convincere. Ma a rendere particolarmente efficaci le loro strategia è adesso uno strumento che sino a qualche decennio fa era quasi irrilevante: vivere circondati da schermi significa vivere circondati da immagini, cioè da messaggi insieme più «spicci», cioè grossolani, e più efficaci rispetto alle parole, perché più adatti a superare le nostre barriere di diffidenza: «le immagini sono più importanti delle parole, perché […] la porzione di sistema nervoso dedicata alla visione è maggiore di quella dedicata agli altri sensi, e normalmente ricordiamo meglio e più facilmente ciò che abbiamo visto, rispetto a ciò che abbiamo letto o ascoltato». Osservazione interessante, e ben documentata nelle pagine successive, che dovrebbe allertare soprattutto gli insegnanti: perché è chiaro che all’educazione alla scrittura occorrerà sempre più affiancare, a scuola, un’informale (la formalizzazione scolastica è la morte) educazione all’immagine.

Ma davanti al dilagare della lingua disonesta è fuori luogo anche la costernazione: un po’ perché di disonestà anche peggiori è costellata la storia, e un po’ perché forse ci immaginiamo un pubblico più innocente e sprovveduto di quanto effettivamente non sia. Voglio dire che chi ascolta e dà credito ai nostri non occulti persuasori, chi abbocca all’amo della loro retorica, è spesso perfettamente consapevole di partecipare a un inganno, e messo di fronte a una verità che contraddice le sue convinzioni continua a tener ferme, serenamente, le sue convinzioni, o quelle dei demagoghi che lo rappresentano: Lombardi Vallauri coordina un gruppo di studiosi riuniti nell’OPPP, Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda, che «pubblica resoconti puntuali sull’onestà comunicativa dei politici». Lodevole iniziativa: ma che succede quando dell’«onesta comunicativa», all’ascoltatore o al lettore comune, non importa più niente?

Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione, Il Mulino 2019.

 

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