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Su “Fedeltà” di Marco Missiroli

La retorica classica chiama aposiopesi quella reticenza allusiva che consiste nella interruzione più o meno brusca di una frase: «Vorrei avere un briciolo della tua”, – e tacque»; «”Volevo passare da tua madre in ospedale ma ci credi che”. Ansimò»; «lui con lei sul materasso spoglio, lui che finalmente». Questi esempi provengono da Fedeltà, di Marco Missiroli, in cui l’aposiopesi, specialmente nei dialoghi, s’impone come fatto formale prominente. La cosa è notevole tanto più se si considera che nel romanzo precedente, Atti osceni in luogo pubblico, di reticenze ce n’erano pochissime (anzi quel libro si reggeva proprio sull’energia di una confessione impudica). Si può dedurre che la frequenza delle forme di riserbo vada messa in rapporto col tema di questo romanzo nuovo, che parla appunto di segreti: fedeltà difficili, minate dai fantasmi di varie infedeltà, tra due giovani sposi e i rispettivi amanti – lui, lei, l’altro e l’altra (quattro facce di una sola paura, quella di essere condannati al fallimento sociale e personale). Una storia decennale di tradimenti reali o presunti, sospettati o insospettabili, che ramifica e si specchia in altri tradimenti: ad esempio in quelli antichi dei genitori di lei, o negli incontri occasionali dell’altro, eccetera.

Ma concentrarsi sui fili narrativi di Fedeltà non è proficuo: il gioco della trama (e delle sottotrame) appare studiato per evocare prima, e poi sedare, a colpi di buon senso e correttezza politica, tutte le principali insicurezze delle attuali e derelitte classi medie: la precarietà lavorativa, i rapporti (e i conflitti) generazionali, le fragilità spirituali e materiali, la crisi della coppia, del matrimonio, della famiglia. Più interessante riflettere sulle conseguenze che comporta questo puntare – consciamente o inconsciamente – sulla reticenza come forma.

Il primo effetto è una sorta di parsimonia descrittiva, che elimina dalle molte pagine di introspezione ogni sforzo di approfondimento psicologico. Invece di scomporre e studiare i sentimenti profondi dei suoi personaggi, Missiroli li esprime nel modo più generico e sintetico possibile: «“Dove vai?” Andava a togliersi il demone»; «Allora lui aveva intravisto, o aveva creduto di intravvedere, una donna con una ferita». Tutti i personaggi principali esibiscono i propri traumi come fossero medaglie; guardandosi bene dallo sviscerarli, ma anzi oggettivandoli in un vasto campionario di tagli, fratture, piaghe e lividi che invitano il lettore a una identificazione senza indugi. L’altra faccia della sobrietà analitica è infatti una spiccata tendenza al pathos: l’una garantisce dell’altro, sia sul versante lirico-tragico (combattimenti tra cani, autolesionismi, «fight-club dei poveri»), sia su quello più sentimentale (bambini autistici, nonne sofferenti, padri laconici ma buoni). La parola “cuore”, del resto, è ricorrente («Si sentiva il cuore scalpitante e sapeva che questo scalpitare avrebbe potuto chiamarlo giovinezza»). La letteratura stessa, sotto forma di romanzi galeotti, letti in coppia e offerti in dono, fa parte dell’educazione sentimentale di molti personaggi: i libri aiutano ad amare, e quindi a vivere, non a capire cosa sono l’amore e la vita veramente. Proprio come avveniva in Atti osceni in luogo privato.

Rispetto a quel libro, la differenza principale sta nel ritmo. Atti osceni si segnalava per un inizio rapido e incisivo, la cui energia restava in circolo in tutta la prima parte del romanzo; Fedeltà presenta scansioni più omogenee e una pluralità di personaggi, per cui si passa da un punto di vista dall’altro con una tecnica (di suggestione cinematografica) che tiene il racconto in continuo movimento: qui la reticenza si esprime nel rifiuto radicale di ogni inciso, pausa o deviazione. Il che ci porta a un’ultima forma di riserbo, o forse di risparmio, che definirei stilistico: mentre l’attenzione dell’autore pare rivolta per intero alla gestione del flusso narrativo, la lingua oscilla tra espressione colloquiale («la luce le dà un riflesso bellissimo, tipo argento») e tour de force metaforici non sempre calibrati («Il lascito del professore era un freno a mano tirato»), con risultati che vanno dallo sciatto al kitsch, cioè dall’assenza di stile al suo eccesso. E anche se non mancano pagine riuscite, con ritratti convincenti del nostro presente – il colloquio di lavoro, per esempio – la cosa che più rimane in testa, a lettura conclusa, è proprio lo scarto tra la frugalità delle ambizioni intellettuali e la volontà smisurata di sedurre e assecondare  il lettore sul più semplice dei piani: quello emozionale. Per queste ragioni, Fedeltà si presenta come prototipo esemplare di una direzione intrapresa dalla nostra narrativa; e di certe scommesse della nostra editoria.

 

 

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