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Leggere Dante nel 1330

Avete mai provato a leggere la Commedia di Dante senza commento? Pochi lo fanno, perché pochi – anche tra gli studiosi di professione – sono in grado di farlo. I commenti servono infatti non solo e non tanto per capire la lettera (per esempio cosa vuol dire il verbo abbandonarsi nel verso «[colpo] tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona»: non quello che s’intende di solito, come ha mostrato recentemente Francesco Montuori) quanto per capire meglio un testo in cui ogni terzina sembra prestarsi a sempre ulteriori approfondimenti di senso (per esempio cosa intende dire Dante nello strano excursus sui «battezzatori» in San Giovanni, nel canto XIX del Paradiso: l’annoso dibattito è stato riaperto con nuovi argomenti, qualche anno fa, da Mirko Tavoni).

Questa esigenza di lettura ‘accompagnata’ non la avvertiamo soltanto noi, lettori nati tardi: la si avvertì subito, non appena la Commedia cominciò a circolare tra i contemporanei di Dante. E già negli anni Venti del Trecento uomini appena più giovani di Dante – ma che in alcuni casi avevano avuto modo di incontrarlo, di interrogarlo – iniziarono a compilare dei commenti. Da allora non si è più smesso. Vent’anni fa, una squadra di dantisti facenti capo al Centro Pio Rajna, e coordinati da Enrico Malato e Andrea Mazzucchi, ha varato un progetto di studio e di edizione di questi antichi commenti. Molto è già uscito in questo ventennio, e molto uscirà nei prossimi, sino a ricomporre l’intera vicenda interpretativa del poema dantesco. Ne valeva la pena? Sì, è per più ragioni: per l’ausilio che questi antichi commenti continuano a dare in vista dell’interpretazione puntuale del poema; perché le ricerche intorno ai copisti e agli esegeti di Dante aprono nuove prospettive nella storia della cultura tardo-medievale; e perché studiare la tradizione dei commenti significa esplorare, descrivere e insomma mettere a disposizione dei competenti un’enorme mole di materiale d’interesse linguistico, filologico, paleografico, storico-artistico (le illustrazioni alla Commedia sono a loro modo una forma di commento).

Escono ora i tre volumi di quello che nella tradizione è stato battezzato come «Ottimo commento», opera di un ignoto lettore-studioso fiorentino che si è a lungo pensato di poter identificare col notaio Andrea Lancia, prima che gli studi di Luca Azzetta, svolti a latere del progetto di edizione, non dimostrassero molto improbabile questa identificazione. A curarne l’edizione sono quattro giovani filologi di sicuro avvenire (perché anche a questo servono i grandi progetti, a far crescere i giovani studiosi): Giovanni Battista Boccardo, Massimiliano Corrado, Vittorio Celotto e (per la redazione del cosiddetto Amico dell’Ottimo) Ciro Perna. L’Ottimo era già stato pubblicato nel 1827-29, ma sulla base di un solo manoscritto e in maniera sciatta e dilettantesca (errori di lettura, omissioni, correzioni scriteriate), tanto che quest’edizione si meritò l’epiteto di «scellerata stampa che fa vergogna alla dantofilìa e alla editoria italiana» (Passerini). Qui siamo ovviamente su un altro pianeta: la recensio è estesa a una quarantina di codici e i rapporti tra i testimoni chiariti con rigore lachmanniano, sicché dello splendido lavoro ricostruttivo dei quattro studiosi potrà fare tesoro chi voglia in futuro arricchire i manuali di filologia con un capitolo sull’ecdotica di quegli specialissimi organismi testuali che sono i commenti alla Commedia.

L’Ottimo è un commento di capitale importanza sia perché antichissimo (circa 1334), sia perché fiorentino (laddove la primissima attività di commento sulla Commedia era stata bolognese e settentrionale), sia perché si tratta di un commento integrale, che, con attitudine molto moderna, fa tesoro dell’esegesi pregressa discutendola e integrandola – ed è rinfrancante trovare che anche l’antico commentatore esita, disinvoltamente, tra interpretazioni già allora, a un quindicennio dalla morte di Dante, confliggenti: «Questi due vecchi, che sono in quinto luogo della santa danza, secondo alcuno sono li due príncipi delli apostoli, Piero e Pagolo; alcuno vuole che sieno due doctori di leggi, Moisè e Paolo; alcuni due che vivono nel Paradiso terresto, cioè Enoc ed Elia; e cosí variamente se ne sente».

L’Ottimo procede in sostanza come i commentatori moderni: annota i versi, li parafrasa, li accosta ad altri versi della Commedia e a quelli del Dante lirico: segno che aveva sottomano, se non tutta l’opera dantesca, una buona parte di essa, Convivio e Vita nuova compresi, e poteva citarla a riscontro (così ecco spuntare la sua più celebre canzone morale in un passo in cui si accenna all’età dell’oro: «… E cosí pare sentire l’aultore, testimonando in quella canzone che comincia: Tre donne intorno al cor mi son venute, quivi: Ché se noi semo ora puniti / e pur verrà gente / che questo dardo farà star lucente, cioè quello delle vertudi»). Soprattutto, meglio di ogni altro predecessore l’Ottimo fa luce sulle fonti dantesche mostrando di padroneggiare una cultura sorprendentemente vasta, dai classici latini alle compilazioni storiografiche medievali, ai lessicografi. A queste cognizioni libresche sembra unire poi una competenza di prima mano non sull’opera ma sull’uomo. L’Anonimo dichiara infatti in due punti del commento di aver parlato direttamente con Dante (e non c’è ragione di negargli fiducia): in Inf XIII, dove riferisce la leggenda della statua di Marte, mitico patrono della città di Firenze; e in Inf X 85-87, dove dà un’indicazione preziosa (perché còlta dalle labbra dell’interessato!) circa la contrainte della rima: «Io scriptore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma che elli molte spesse volte facea li vocaboli dire nelle suoi rime altro che quello che erano apo li altri dicitori usati di sprimere».

Prima però di quest’opera di commento ad versum, l’Ottimo introduce sinteticamente il lettore al canto, e in questi ‘cappelli’ si trovano forse gli spunti più interessanti. E il primo subito, nella prima pagina, perché per giustificare la sua opera l’Ottimo paragona, con un’immagine splendida, il lavoro del commentatore a quello di chi macina in un vaso dei semi aromatici, liberandone l’essenza: «La natura delle cose aromatiche è questa, che molto magiormente peste che integre rendono odore: el grano della senape integro pare lieve cosa, ma trito infra ’ denti mordica il gusto più fortemente; e così la scriptura molte volte, quando è intesa la scorza di fuore sola, no ha sapore; la quale, se veramente nel vaso della sposizione sarà macinata, spanderà della sua suavitade l’odore che ha dentro».

Ma anche se è chiaro che di questo commento ci si servirà d’ora in poi come me ne sono servito io adesso, per campioni, come ausilio alla lettura di questo o quel verso dantesco, non sarebbe male trovare il tempo (penso soprattutto agli studenti) per una lettura continua e completa almeno di qualche pagina, di qualche canto commentato. La ‘mentalità medievale’ è un concetto ambiguo, come qualsiasi ‘mentalità’, che si usa come scorciatoia del pensiero ma che sarebbe meglio non usare; ma poche cose mi hanno dato l’impressione di aver fissato lo sguardo su un modo peculiarmente medievale di vedere la letteratura, quindi il mondo, come la lettura della trentina di pagine che l’Ottimo dedica al canto X dell’Inferno: trenta pagine dedicate alla divisio textus, alla rassegna delle sessantotto «spetie de l’eresia» che funestano l’orbe cattolico, all’elenco degli articoli della fede cristiana, a un’infinità di riscontri scritturali e di informazioni storiche – insomma questo zelo per ciò che la letteratura contiene, per ciò che insegna, e questo sommo disinteresse per ciò che la letteratura è, per quello che una volta si sarebbe chiamato sciaguratamente la letterarietà: «Questo testo, nel quale Vergilio parla a l’autore, è aperto … La fine di questo capitulo, ch’è in scendere verso il puzzolente vii circulo d’inferno, è aperta». Aperta non nel senso di Eco ma nel senso che è così chiara che non serve spenderci parole. Che liberazione!

Ottimo commento alla «Commedia», a cura di Giovanni Battista Boccardo, Massimiliano Corrado, Vittorio Celotto; Chiose sopra la «Comedia», a cura di Ciro Perna, 3+1 volumi, Roma, Salerno Editrice 2018.

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