Libri

Le due ferite di Raffaele La Capria

Ecco un libro che non ha niente a che fare con l’Italia di oggi. Non solo perché il suo autore è quasi centenario, e può permettersi di guardare le cose stando al di fuori della mischia, e non solo perché Il fallimento della consapevolezza (Milano, Mondadori 2018) raccoglie vecchi pezzi e vecchie lettere, ma per una ragione più sostanziale: che a differenza della gran parte dei suoi contemporanei, ammalati di presente, La Capria ha sempre avuto a cuore la letteratura e la storia più della politica, e anche in questo libro i nomi che s’incontrano più spesso sono quelli dei vecchi maestri (Croce, Labriola, Moravia) o dei quasi coetanei (Calvino, Pasolini, Parise, Ortese), tutti comunque abitanti di quel mondo separato che è la cultura. L’attualità coi suoi nomi e la sua cronaca s’intravede appena.

Antefatto. Nel 1961, La Capria ha pubblicato uno dei più bei romanzi italiani del secondo Novecento, e l’unico forse che si possa definire ‘sperimentale’ e venga letto ancor oggi non solo con ammirazione ma anche con gusto da un pubblico un po’ più ampio di quello dei letterati di professione. Ferito a morte non è stato il suo ultimo romanzo, ma negli ultimi decenni La Capria è stato soprattutto un saggista in un senso prossimo a quello di Montaigne: non il saggista impegnato che riflette sulla società attraverso le lenti di una filosofia o di un’ideologia ma il personal essayist che parla soprattutto dei fatti suoi, o della vita di tutti per come si riflette nella vita di chi scrive. L’abbandono della forma-romanzo è funzionale a questo disimpegno: «Solo fuori dalla prigione del genere, che imponeva una sua forma codificata, io avrei potuto esprimermi in libertà» (Cinquant’anni di false partenze).

Norman Mailer ha detto una volta che a Gore Vidal «mancava la ferita», alludendo al fatto che Vidal veniva da una famiglia ricca e che nella vita non aveva sofferto abbastanza, e implicando che questa mancanza faceva di lui uno scrittore, ma non un grande scrittore. La Capria viene da una famiglia non ricca ma benestante: e benestante ha saputo rimanere, scrivendo non solo libri e articoli per i giornali, quando questa attività aveva un certo smercio, ma anche e soprattutto sceneggiature (due almeno memorabili: ovviamente Le mani sulla città e meno ovviamente Leoni al sole, che in altre mani avrebbe potuto essere bello come i Vitelloni); e sembra aver attraversato la vita senza rabbia: «Per non so quale ragione», gli scrive in una lettera del 1986 Anna Maria Ortese, «tu non sembri trovarti mai in contrasto – contro – nessuna cosa o forma del vivere … Così si spiega perché è un riposo parlare con te». Ma di ferite, La Capria ne ha patite almeno due. La prima come tanti in gioventù, riassunta nei versi di Auden che ha messo in esergo a – il titolo non è scelto a caso – Ferito a morte: «Tra quelli che per ‘vita’ intendono un / Bildungsroman e quelli per cui vivere / significa essere-visibili-adesso si apre un vuoto / che nessun ponte può colmare». Da buon intellettuale, il protagonista Massimo, che è l’alter ego dell’autore, vive la vita come un faticoso romanzo di formazione: problematico, tormentato, insofferente nei confronti di ciò che è e di ciò che ha intorno, proiettato verso il futuro; mentre gli altri, gli amici, sono i «prìncipi delle apparenze», ignoranti di libri ma affascinanti nel corpo e negli abiti, bravissimi con le ragazze:

Io ero diventato, per spirito di rivalsa o per vocazione, un intellettuale, o per meglio dire leggevo molti libri e averli letti mi faceva pensare di essere un intellettuale, uno che avrebbe potuto vantare una certa superiorità su quegli altri ragazzi da me considerati i ‘principi delle apparenze’, gli aitanti e i rampanti che ‘si presentavano bene’. Ma se uno m’avesse chiesto: «Cosa preferiresti essere, un principe delle apparenze o un grande intellettuale che come te non raggiunge il metro e settanta d’altezza?». Io, con la mentalità che avevo allora, avrei preferito essere un principe delle apparenze (L’amorosa inchiesta).

Guarire da questa prima ferita ha significato trovare un compromesso tra, da un lato, l’aspirazione al «vivere indistinto», l’abbandono alla «bella giornata» contemplata dalla terrazza sul mare della casa di famiglia a Palazzo Donn’Anna, e insomma il perdersi nel languore di Napoli e, dall’altro, l’estetismo del letterato (False partenze: «S’era abituato a considerare anche lui la letteratura come un rifugio dalla volgarità circostante, come l’approdo a un regno di valori privilegiati dove la ‘magia dello stile’ contava più della forza delle idee, la ‘poesia’ più della prosa, e il destino individuale più della sorte comune»). Lasciare Napoli, andare a vivere e a scrivere a Roma è stato il suo modo di salvarsi da una città ossessiva, fagocitante; ma anche di correggere una certa naturale tendenza alla fatuità con la disciplina del lavoro.

La seconda ferita l’ha patita da adulto, quando ha deciso di smettere di fare il romanziere e di dedicarsi al genere del saggio, scoprendosi liberale in un paese allergico al liberalismo. La Capria non ha sottoscritto la mitologia della Resistenza (sempre False partenze: «Furono tanti – da una parte e dall’altra, anche tra i fascisti – coloro che rimasero bloccati in quell’antitesi, in un eterno millenovecentoquarantacinque. E mentre si trinceravano dogmatici e cupi nel loro passato, il mondo ignorandoli batteva altre strade»); non ha mai amato gli antimoderni; ha sempre diffidato delle due culture che hanno dominato il dopoguerra italiano, quella cattolica e quella marxista, con i loro corollari di risentimento e di auto-assoluzione, di diritto all’assistenza; e soprattutto non è mai riuscito ad affidarsi alle certezze dell’ideologia, affine in questo a intellettuali anche amici come Flaiano o Berto o Parise:

Il risentito di solito oscilla tra due poli opposti: il senso di onnipotenza, perché si considera un salvamondo, la bilancia morale della propria epoca, il crocevia, il punto di passaggio obbligato di ogni avvenimento storico, che intromette nella sua vita privata creando confusione da una parte e dall’altra; e il senso di totale impotenza quando si accorge che non potrà mai fare alcunché per mutare le ingiustizie del secolo. Pasolini e Fortini mi sembrano gli esempi più alti di questo tipo di risentimento (Lo stile dell’anatra).

Tanto l’una quanto l’altra ferita riaffiorano in questo Fallimento della consapevolezza. La prima (infantilismo, desiderio di oblio, senso di inadeguatezza alla vita) lo fa in modo inatteso. In coda al libro, La Capria pubblica infatti una ventina di sue lettere ritrovate in casa dell’amico Giuseppe Patroni Griffi, morto nel 2005. Sono lettere dell’inverno-estate del 1943, forse il periodo più drammatico della Seconda guerra mondiale. La Capria aveva ventun anni e aspettava di sapere dove, a quale fronte di guerra sarebbe stato destinato (poi ebbe fortuna e finì a fare l’interprete per l’esercito americano a Brindisi). Sono lettere di un giovane ipersensibile, intrise di un affetto, di un amore per l’amico che oggi nessuno esprimerebbe con tanto calore e candore. Caratteristico della gioventù è anche il continuo tono di lamento, il cruccio per non venir compresi, per non trovare attorno a sé nessuno che ci corrisponda e ci ami. Ma anche messa nel conto l’età, resta sorprendente che in una ventina di pagine non una parola venga spesa per ragionare della guerra e del momento orribile che l’Italia stava vivendo. Tutto, anche la tragedia nazionale, è riportato a una misura personale: che è poi ciò che La Capria farà regolarmente nei saggi della maturità. Nel giugno del 1943, mentre il suo reggimento è sul punto di partire per la Grecia, trova il tempo di raccomandare all’amico di comprargli l’Antologia di Spoon River. E congedandosi: «La naia ora mi stringe il cuore come non mai. La naia è [così nel testo: ma sarà forse «e» congiunzione] il non sapere quando tutto questo finirà. Incaricati del mio atto unico». Questo attaccamento morboso alla letteratura può sembrare assurdo, quasi scellerato al lettore di oggi: ma per quella generazione il leggere e lo scrivere erano stati molto più di un passatempo e anche qualcosa di più di uno strumento di crescita – un modo per sopravvivere senza farsi bruciare il cervello e la coscienza dalla stupidità del fascismo: il quasi-coetaneo Sciascia ha raccontato più volte, anche meglio di La Capria, la medesima esperienza.

Alla seconda ferita (essere liberali in un paese ostile al liberalismo) fa pensare un interessante dialogo col sociologo Domenico De Masi, il quale venticinque anni fa, quando ha luogo il dialogo, era su posizioni di estrema sinistra, mentre negli ultimi anni –in perfetta coerenza, a mio avviso – si è trovato a fianco del Movimento Cinquestelle. Tutta la conversazione è notevole, a tratti anche divertente, perché i due interlocutori parlano proprio lingue diverse. Ma basterà l’esempio. Come non accade spesso tra gli intellettuali italiani, La Capria è sensibile al tema delle condizioni materiali di coloro che, senza poter contare su beni di fortuna, vivono di scrittura o di arte. A Napoli non ci sono grandi editori, non ci sono grandi giornali, non c’è il cinema; ergo, gli intellettuali o insegnano o (ed è stato il destino della Ortese, di Ghirelli, di Rosi, dello stesso La Capria) se ne vanno:

A Napoli quasi tutti gli intellettuali sono professori universitari: alcuni bravi e aggiornati nella loro disciplina e altri meno, alcuni che si danno da fare e altri meno, ma tutti appartenenti a istituzioni. Intellettuali come Pasolini, come Moravia, come Calvino, a Napoli non avrebbero spazio né possibilità di vita.

De Masi replica che questa assenza di prospettive alla fine è un bene, perché salva l’intellettuale dall’omologazione: «A Milano ci sono intellettuali omologati all’industria e intellettuali omologati all’Università. A Napoli, non essendoci industria, gli intellettuali possono essere omologati solo all’Università. Il che, tutto sommato, mi sembra il male minore». La Capria glissa, per cortesia d’ospite, ma letto un quarto di secolo dopo, questo elogio del sottosviluppo e dell’Industria Culturale di Stato appare insieme incredibile e, purtroppo, credibilissimo. Col che si vede che mi sbagliavo, dopotutto: i vecchi pezzi raccolti nel Fallimento della consapevolezza dicono anche qualcosa dell’Italia di oggi.

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Nota sull’edizione. Il libro ha poco più di cento pagine, costa 18 euro. Non pochi. Per questo prezzo si ha il diritto di chiedere all’editore di provvedersi di un bravo correttore di bozze (madeleine, non madelaine), di dire dove e quando sono usciti i vari pezzi la prima volta (Un’autopresentazione, per esempio, credo facesse parte di un libro di autopresentazioni di scrittori uscito qualche anno fa) e di mettere qualche nota dove serve («Ho visto il IX Maggio, quelle firme, Giorgio Napolitano, Luigi Compagnone…»: cos’è il IX Maggio? Chi sono questi signori?). Che a un grande editore si debbano ricordare queste cose, di elementare attenzione, è stupefacente.

Raffaele La Capria, Il fallimento della consapevolezza, Milano, Mondadori 2018.

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