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Giuseppe Berto a 40 anni dalla morte

C’è una vecchia intervista della Rai in cui si vede Giuseppe Berto nella sua proprietà a Capo Vaticano, in Calabria, mentre costruisce una casa, lui e un muratore del posto che gli dà una mano. È il 1968, quattro anni prima Berto ha pubblicato il suo romanzo più celebre e più bello, Il male oscuro; ha 54 anni, ne ha ancora dieci da vivere: muore il primo novembre del 1978, quarant’anni fa esatti. L’intervistatore gli domanda se non si interessa ai problemi sociali della Calabria, «per esempio al problema dei giovani, i giovani che stanno operando una certa rottura con il mondo tradizionale». «No, non me ne occupo molto», risponde Berto. «Io adesso, anche quando penso a dei problemi che possano riguardare il mio vero mestiere, che è quello di scrivere, penso sempre a dei problemi interiori. Comunque, l’eco di questi rivolgimenti mi arriva senz’altro». Non c’è ‘tutto Berto’, in questo scambio, ma molto sì. Nel bel mezzo dell’Età dell’impegno, Berto dichiara che non gli interessano granché i problemi dei giovani calabresi, e che i problemi che gli stanno a cuore, da scrittore, sono quelli che riguardano l’anima. E lo dice mentre stucca una parete.

Gli scrittori della generazione di Berto avevano vite meno lisce e ordinarie degli scrittori di oggi (laurea in Lettere, primi racconti, primo romanzo, collaborazione a un quotidiano, secondo e terzo romanzo, reportage di viaggio, morte), perché spesso venivano da famiglie povere, rurali, avevano fatto la guerra, e insomma avevano visto un po’ di mondo. Ma anche misurato su questo sfondo, Berto era un eccentrico. Nato e cresciuto in provincia, a Mogliano Veneto, padre carabiniere e poi commerciante, laurea in Lettere – una costante – solo perché era più facile e costava meno, Berto non aveva il profilo dell’intellettuale-tipo. Da un lato, era meno colto degli scrittori e dei critici che incrociò a Roma e che per lo più non gli piacquero, e a cui non piacque. Dall’altro, aveva rispetto alla gran parte di loro un rapporto meno mediato con la vita. Aveva combattuto in Africa, era finito in un campo di prigionia in Texas dove, a parte scrivere i primi racconti, gli era toccato cibarsi di cani e gatti bolliti, e poi tra un libro e l’altro aveva trovato il tempo e la voglia di rispondere alla posta del cuore su un mensile femminile, di aprire un ristorante e poi un night nel suo pezzetto di Capo Vaticano, di costruirsi un paio di case con le mani. Uno fatica a immaginare Moravia o Gadda che a cinquant’anni mollano tutto e si buttano nella ristorazione calabra, e accolgono i clienti in sala stappando il Tocai fatto venire apposta dal Friuli – Berto l’ha fatto.

Ha vissuto, confortevolmente, di scrittura in anni in cui lo si poteva fare più facilmente di oggi: Il cielo è rosso, Il male oscuro, Anonimo veneziano contano tra i libri italiani più venduti e più tradotti del secondo Novecento; ha lavorato per il cinema, alla sceneggiatura di film però non memorabili; mentre sono decisamente belle – un modello di nitore, franchezza e indipendenza di giudizio – le sue Critiche cinematografiche 1957-1958, pubblicate postume da un piccolo editore calabrese, Monteleone (ecco un libro da ristampare subito).

Nonostante l’ammirazione di molti, e tra questi molti Gadda, non ha mai avuto veramente un posto di spicco nel canone letterario del pieno Novecento: un po’ per i trascorsi in camicia nera, trascorsi che vennero perdonati a molti altri ma solo dopo abiura e passaggio nel campo antifascista (mentre lui, nemico di ogni settarismo, si è subito definito a-fascista, posizione che si è volentieri fraintesa come astensione, equidistanza); un po’ perché i suoi libri non si lasciano incasellare in una di quelle scuole o tendenze che servono alle antologie scolastiche per spiegare la letteratura; un po’ perché non era né cattolico né comunista in un paese di cattolici o di comunisti quando non – per il suo raccapriccio – di cattolici e comunisti: era un liberale anarchico, un individualista intollerante alle ideologie, abbastanza straniero in patria in quegli anni.

Dal 2016, Neri Pozza ha preso a rieditare i suoi libri: e chi non ha letto Il male oscuro può trovarlo adesso in libreria con una postfazione molto bella (anche quando non se ne condivida del tutto l’entusiasmo) di Emanuele Trevi. Personalmente, affidato questo notevole romanzo ai ‘lettori forti’ (ne vale senz’altro la pena, anche perché Il male oscuro è l’autobiografia romanzata di un uomo che sa ridere di sé, e fa spesso ridere), raccomanderei soprattutto la lettura dei suoi saggi e dei suoi reportage.

In Italia si smania per la nonfiction spesso anodina di tanti narratori stranieri e si sottovaluta o si ignora il prodotto nazionale, a parte i soliti quattro o cinque scrittori-totem ben incasellati nelle antologie. Nel 1971, Berto pubblica Modesta proposta per prevenire (ristampato nel 1998 da Marsilio); nel 2010, il mai abbastanza lodato editore Aragno ha raccolto i suoi articoli scritti negli anni Sessanta per il Resto del Carlino (Soprappensieri). Sono le riflessioni di un liberale in un paese intimamente illiberale, ammalato d’ideologia e di retorica, specie nel suo ceto dirigente ‘umanista’. Certe pagine – e non c’è elogio più grande – sembrano scritte da Savinio o Brancati o Flaiano; questa, per esempio, da mandare a memoria: «Per stare alla bell’e meglio in piedi, il nostro Paese ebbe subito bisogno di appoggiarsi all’esteriorità, alle finzioni, alle commozioni, e questo s’ottenne usando soprattutto le iniziali maiuscole: Patria, Famiglia, Stato, Popolo, Nazione, Religione, Risorgimento, Fascismo, Resistenza, Scuola, Casa e via dicendo. Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la scriviamo con l’iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di garanzia immunitaria, che la mette al riparo dal buonsenso e dalla critica».

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