Pop/Rock

Lorenzo Cherubini (Jovanotti), “Mezzogiorno”

Francesco Ciabattoni (Georgetown University),  con la collaborazione dei suoi studenti, ha aperto un sito di traduzioni di e commenti a canzoni italiane, www.italiansongwriters.com. Questo è il mio contributo alla Causa, con profilo biografico a uso di studente americano.

There are no second acts in American lives (Francis Scott Fitzgerald). Nelle vite italiane invece sì. Tanto che l’autore di questa canzone non ha cambiato soltanto stile, temi, look, ma persino nome. Per quelli che hanno più di, diciamo, 35 anni, è ancora Jovanotti, il nomignolo scemo/divertente che si era scelto a vent’anni, quando cominciò a scrivere canzoni (è un gioco di parole: Giovanni è l’equivalente di John, e la parola giovanotti in italiano vuol dire youngsters; ma il nome si può anche spezzare così: Joe Vanotti, alla italo-americana…), mentre per quelli nati dopo (e per lui stesso, oggi che di anni ne ha 52, e il vecchio nomignolo Jovanotti lo imbarazza un po’) è Lorenzo Cherubini, o semplicemente Lorenzo.

La metamorfosi, in questi trent’anni, è stata radicale, molto probabilmente la più radicale che si sia vista nel campo della musica leggera italiana contemporanea. Negli anni Ottanta e Novanta, il cantante Jovanotti è stato l’emblema del pop chiassoso, disimpegnato, elementare tanto nelle melodie quanto nelle parole (e per farsi un’idea bastano i titoli: Go Jovanotti Go, Gimme Five, Vai così, La mia moto, Spacchiamoci le orecchie, Una tribù che balla). Ma la maturità anagrafica ha portato a Lorenzo Cherubini la maturità artistica. Negli ultimi quindici anni ha scritto canzoni completamente diverse, molte delle quali belle, alcune seriamente riflessive (Fango, La terra degli uomini, Ora, E non hai visto ancora niente), altre euforiche, solari (Megamix, Il più grande spettacolo dopo il Big Bang, È per te, L’estate addosso, Oh, vita!, Le canzoni).

Mezzogiorno è un ibrido. Il tema non è un tema tipico da canzonetta (il tempo che passa, i cambiamenti che porta con sé), ma lo svolgimento del tema ha i toni dell’inno, non quelli dell’elegia.

Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma
Ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma
La foto della scuola non mi assomiglia più
Ma i miei difetti sono tutti intatti
E ogni cicatrice è un autografo di Dio
Nessuno potrà viver la mia vita al posto mio
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro
Sarà sempre attraverso questo cuore
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni
Ma resterà qualcosa in questa strada
Non mi è concesso più di delegarti i miei casini
Mi butto dentro vada come vada

Siamo come il sole a mezzogiorno baby
Senza più nessuna ombra intorno… baby
Siamo come il sole a mezzogiorno baby
Senza più nessuna ombra più nessuna ombra intorno baby

Un bacio e poi un bacio e poi un bacio e poi altri cento
Teoricamente il mondo è più leggero di una piuma
Nessun filo spinato potrà rallentare il vento
Non tutto quel che brucia si consuma
E sogno dopo sogno sono sveglio finalmente
Per fare i conti con le tue promesse
Un giorno passa in fretta e non c’è tempo di pensare
Muoviamoci che poi diventa sera…

Siamo come il sole a mezzogiorno baby
Senza più nessuna ombra intorno… baby
Siamo come il sole a mezzogiorno baby
Senza più nessuna ombra più nessuna ombra intorno… baby

Gente che viene
Gente che va
Gente che torna
Gente che sta
Il sole se la ride in mezzo al cielo
A guardare noi che ci facciamo il culo
È un gioco
Mezzogiorno di fuoco
È un lampo
Sulle armature
In guardia
Niente da capire
Mi specchio
In una goccia di sudore

Siamo come il sole a mezzogiorno baby
Siamo come il sole a mezzogiorno
Senza più nessuna ombra intorno
Siamo come il sole a mezzogiorno
Senza più nessuna ombra intorno… 

Il mezzogiorno è la metà della vita. Il ritornello di Mezzogiorno di Jovanotti ricama su questa metafora – non originale, ovviamente, ma neppure in cima alla scala dell’ovvio – per definire la generazione a cui Jovanotti appartiene (è nato nel 1966, la canzone è uscita nel 2008), e la fase di piena maturità a cui è giunta questa generazione: «Siamo come il sole a mezzogiorno / senza più nessuna ombra intorno». La maturità non fa paura, anzi mette una certa euforia, una sensazione che viene ribadita dalla solarità della melodia: siamo al culmine della nostra vita, al centro delle cose, è il nostro momento; come quando il sole è a picco, non proiettiamo ombre (dove ombra è forse, metaforicamente, ‘ciò che sino ad ora impediva che la maturità venisse raggiunta’; o più semplicemente ‘i problemi della vita’; o forse senza ombra intorno non va letto come metafora, forse è solo una zeppa che ripete il concetto ‘in pieno sole’).

Ma non è questo ritornello la parte interessante della canzone. Interessante è tutto il resto. Mezzogiorno illustra bene, infatti, una caratteristica strutturale comune a molte canzoni contemporanee. Nelle strofe, le canzoni ‘di una volta’ sviluppavano un concetto o un’immagine, entrambi elementari, perseguendo una certa coerenza semantica. Questa è Binario di Claudio Villa (ma va bene anche My Way di Sinatra, va bene quasi qualsiasi vecchia canzone):

Vecchio casellante che fermo te ne stai
dimmi come mai non vedi che il mio amore
fugge via lontano e lo inseguo invano
ferma tu quel treno che muoio di dolore
fallo per favore fa ch’io possa rivederla ancor.
Binario triste e solitario tu che portasti via
col treno dell’amor la giovinezza mia.
Odo ancora lo stringere del freno
ora vedo allontanarsi il treno con lei che se ne va.

La donna amata è partita col treno, l’amante che parla nel testo prega il casellante di fermarlo perché lui possa «rivederla ancor». Il testo è ingenuo, ma dice una cosa sola, con la stessa chiarezza che si potrebbe trovare in una pagina di prosa (‘poetici’ sono solo il lessico e la sintassi: aulicismi come odo, anastrofi come «fermo te ne stai», «giovinezza mia»). Nella strofa di Mezzogiorno, invece, non solo trovano posto versi che non sembrano avere alcun rapporto con il senso complessivo del brano, a cominciare dal primo, «Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma», ma anche quando questo rapporto c’è i versi si succedono senza che tra di essi vi sia, il più delle volte, un legame semantico cogente. Non c’è un rapporto d’implicazione logica evidente tra «Venere [che] riappare sempre fresca dalla schiuma» e «La foto della scuola non mi assomiglia più», o tra «Un bacio e poi un bacio e poi un bacio e poi altri cento» e «Teoricamente il mondo è più leggero di una piuma».

Eppure, non sarebbe corretto dire che tra i versi della canzone non c’è alcuna implicazione logica. Questa implicazione c’è, anche se ha maglie più larghe di quelle che stringono il testo di Binario di Claudio Villa. Il tema del brano è quello dell’assunzione di responsabilità che viene con l’età matura, e che porta con sé anche un modo nuovo di vedere il mondo, una nuova saggezza: si accetta che le cose cambino («E giorno dopo giorno passeranno le stagioni»), ma si constata anche con sollievo che il cambiamento lascia intatto qualcosa, che «non tutto quel che brucia si consuma»: il volto del bambino nella foto non è più quello dell’adulto, ma i difetti, cioè il carattere, sono ancora gli stessi; e le cicatrici sono «autografi di Dio» nel senso che le esperienze anche dolorose accumulate dall’adulto che guarda la foto sono benedette e sacre come la vita, e che insomma vivere è servito. C’è dunque una certa coerenza semantica. Ma è una coerenza che non viene data, una coerenza che l’ascoltatore deve ricostruire facendo attenzione e fatica, cercando il comune denominatore che tiene insieme i vari enunciati. In questo lavoro di collage anche i difetti, anche le lacune di senso finiscono per contribuire al piacere estetico, grazie a quella forza agogica – non trovo una parola meno dotta che dica la stessa cosa – che la musica ha, come se il semplice suono bastasse a stabilire un nesso tra parole e frasi che non ne hanno alcuno quando le leggiamo sulla pagina: versi come «Un bacio e poi un bacio e poi un bacio e poi altri cento, / teoricamente il mondo è più leggero di una piuma» non vogliono dire niente in prosa, sono accettabili in poesia, ma stucchevoli, mentre sono deliziosi una volta messi in musica, questa musica.

Il registro della canzone è, come ho detto, euforico. Essere al mezzogiorno della vita, essere il mezzogiorno della vita riempie il paroliere (i parolieri, per l’esattezza: Riccardo Onori, Saturnino Celani e Jovanotti) di ottimismo e voglia di fare. Questo assenso che egli dà all’esistenza è caratteristico delle canzoni pop, che nella maggior parte dei casi cercano di mostrarci il lato buono della vita. Per questo ci piacciono. Al lato cattivo pensano i poeti. Tocca ai poeti riflettere, per esempio, sul fatto che un minuto dopo il mezzogiorno, non appena raggiunta, cioè, la pienezza della vita, comincia il tramonto: «But oh, love’s day is short, if love decay. / Love is a growing, or full constant light, / And his first minute, after noon, is night» (John Donne, A Lecture upon the Shadow).

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