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Una nuova edizione della “Critica del testo” di Maas

La Critica del testo di Paul Maas è un testo sacro per i filologi, specie per i filologi classici, perché la filologia intesa come ecdotica deve a Maas parte del suo apparato metodologico e parte della sua nomenclatura tecnica (errori-guida e eliminatio lectionum singularium, per esempio). Questo breve saggio uscì per la prima volta nel 1927 come capitolo di una Introduzione alla scienza dell’antichità (dunque non è veramente un trattato o un manuale, termini con cui lo si sente spesso designare: in origine si trattava di una sintesi enciclopedica, e Maas ne aveva già scritte altre due analoghe, una sulla metrica e una sulla paleografia greche). La sua fortuna si misura dal numero delle ristampe che si sono succedute nel corso del Novecento e delle traduzioni in una mezza dozzina di lingue; e si spiega soprattutto con la trasversalità del metodo, applicabile a ogni genere di testo e non solo ai testi classici: «io almeno – scriveva Giorgio Pasquali nella presentazione del testo al lettore italiano – non saprei immaginarmi che l’originale, poniamo, di un testo cinese o bantu possa essere ricostruito dalle copie o da qualsiasi altra testimonianza, insomma dalla sua tradizione, se non sul fondamento delle considerazioni e conforme alle regole enunciate dal Maas». Ciò significa che, benché gli esempi che Maas cita a conforto delle sue tesi siano tutti greci o latini, il suo metodo illumina il lavoro di qualsiasi editore di testi. Un aspetto di quest’ampia fortuna coinvolge, come si sa, proprio Giorgio Pasquali, perché dalla recensione della Textkritik che il grande filologo pubblicò nel 1929 su Gnomon si generò cinque anni più tardi uno dei capolavori della filologia classica del secolo XX, la Storia della tradizione e critica del testo, che discute e vaglia alla luce di un impressionante numero d’esempi classici le acquisizioni maasiane.

L’importanza dell’opera giustifica dunque il fatto che su di essa si torni continuamente con saggi che ne mettono in discussione certe parti (in Italia soprattutto Sebastiano Timpanaro) oppure che la commentano nel dettaglio, articolo per articolo (Elio Montanari, La critica del testo secondo Paul Maas). L’importanza dell’opera e il fatto che essa non sia più disponibile nelle librerie italiane giustifica anche questa nuova traduzione, uscita per le Edizioni di Storia e Letteratura e curata da Giorgio Ziffer, di professione non classicista ma slavista, che nella premessa dichiara – dichiarazione inusuale e bella – di essersi accinto alla traduzione perché mosso dal desiderio «di comprendere meglio un’opera che, letta finalmente nell’originale, ha colpito chi scrive non solo per l’altissima densità concettuale e la visione sistematica dell’infinita varietà dei problemi critico-testuali offerta dall’autore, ma anche per la potenza e la bellezza della lingua e dello stile». La nuova traduzione, che pare complessivamente più aderente al dettato maasiano, si basa sulla quarta e definitiva edizione dell’opera (la precedente di Nello Martinelli si basava sulla prima, con aggiornamenti e integrazioni nelle stampe successive). Ziffer elimina tra l’altro i sottotitoli o rubriche che Martinelli aveva messo in testa ai paragrafi, che nell’originale tedesco non ci sono, e aggiunge alla fine l’indice dei nomi e dei concetti principali, compilato dallo stesso Maas, che mancava nella precedente versione.

La Textkritik di Maas meritava secondo Pasquali di chiamarsi critica textualis more geometrico demonstrata, tanto rigorosa è la sua logica; ma il procedimento di Maas non è affatto meccanico come questa etichetta lascerebbe sospettare. È vero: come sanno i suoi lettori, l’articolazione del discorso ha una mirabile consequenzialità, e le parole non sono mai più di quelle che servono. Nel § 19, per fare solo un esempio, ne bastano una trentina per dire quel che occorre dire su quella che poi verrà chiamata – senza che il concetto si complichi o si arricchisca – diffrazione in absentia: «[Nel caso di una tradizione bipartita] entrambe le varianti possono essere interpretate come errori che sono stati provocati dalla medesima lezione dell’archetipo. In tal caso questa lezione dell’archetipo, che deve essere trovata per mezzo della divinatio (combinatio), costituisce il fondamento dell’examinatio ulteriore».

Ma all’interno della dimostrazione, tra regola e regola, il lettore incontra passaggi più caldi e cordiali, per esempio quello in cui Maas invita gli editori a motivare le loro scelte in sede di allestimento dell’edizione: «C’è troppo poca vita nei nostri apparati critici», o la pagina famosa in cui paragona la tradizione di un testo a un fiume carsico che affiora talvolta in superficie, e lungo il suo corso prende il colore dei detriti coi quali entra in contatto («l’acutezza dell’intelletto – scrisse Pasquali – non ha nel Maas danneggiato la forza e la freschezza della fantasia, ch’è rimasta concreta»); soprattutto, in Maas la logica del procedimento ecdotico è sempre governata e diretta da un’estrema sensibilità nei confronti dello stile, vero banco di prova per lo studioso («Il fatto è che il nocciolo di quasi tutti i problemi critico-testuali è costituito da un problema stilistico, e le categorie della stilistica sono state chiarite assai meno di quelle della critica del testo»), con la conseguenza paradossale che questa cristallina lezione di metodo filologico finisce per generare dubbi sulla possibilità stessa che un metodo siffatto possa essere insegnato ai non predestinati: «Ovunque la possibilità di sanare un testo dipende da un colpo di fortuna; ma solo il dotto l’afferra per il ciuffo. Si legga l’opera prima di Bentley, l’Epistula ad Millium (1691), l’incunabolo della critica divinatoria. Non c’è però nulla che sia lì insegnabile metodicamente».

Paul Maas è e resterà celebre tra i non specialisti per questa Critica del testo, ma nella premessa Ziffer informa opportunamente sull’impressionante produzione scientifica del grande filologo: «Si consideri che tra il 1901, quando apparve il suo primo lavoro a stampa, e il 1927, quando uscì la prima edizione della Textkritik, Maas scrisse più di duecento recensioni e schede, e che altre cento e più ne scrisse nei dieci anni successivi, tra il 1927 e il 1937, quando pubblicò il saggio Leitfehler und stemmatische Typen, che sarebbe entrato come appendice nelle successive edizioni della Textkritik». Fino al 1937.

Su ciò che accadde a Maas in quel torno di tempo informa brevemente Ziffer nella premessa al volume, e più ampiamente il volume di Eckart Mensching Über einen verfolgten deutschen Altphilologen: Paul Maas; e non è inutile accennarne qui. Nel 1934, in quanto ebreo, Maas era stato allontanato dalla cattedra di Filologia classica dell’Università di Königsberg, e – a 54 anni, nel pieno della sua maturità scientifica – costretto ad andare in pensione. Nel 1938, dopo la Notte dei Cristalli, fu incarcerato. L’anno successivo riuscì a lasciare la Germania e a riparare a Oxford (la sorella Estelle non fece in tempo: e nel 1942, sul punto di essere deportata, si suicidò). A Oxford, Maas – uno dei più grandi filologi del suo tempo, l’unico che era stato capace di tenere testa a Wilamowitz nei seminari della Graeca societas che si tenevano il sabato nella casa del Maestro – visse poveramente grazie a qualche collaborazione editoriale e a un piccolo sussidio del governo inglese, sino a quando verso la metà degli anni Cinquanta la Repubblica Federale Tedesca gli riconobbe il diritto a una riparazione economica e a una pensione. Non tornò più in Germania. Morì nel 1964. A un mese dalla sua morte Arthur Propp, un commerciante di legname che era stato suo compagno di prigionia a Königsberg nel 1938, scrisse a una delle sorelle di Maas una lettera di condoglianze piena di ammirazione e di amore per l’amico perduto – l’amico, conviene ricordarlo leggendo queste righe meravigliose, che aveva dovuto passare attraverso due guerre mondiali e aveva conosciuto la persecuzione, la prigione, l’esilio, la povertà:

83 anni è una bella età per dirsi addio. Provo un po’ d’invidia nei suoi confronti. Per tutta la sua lunga vita ha potuto fare ciò per cui era nato. Vedeva indietro lontano fino alle epoche preistoriche, e vedeva lontano nel futuro fino ai suoi pronipoti […]. Per lui potrebbero valere le parole che Goethe disse a se stesso: «Voi, o occhi felici, ciò che avete visto, comunque sia stato, era così bello». E che cosa si può desiderare di più??? (Malgrado tutte le amarezze).

Malgrado tutte le amarezze.

Paul Maas, La critica del testo, traduzione a cura di Giorgio Ziffer, Edizioni di Storia e Letteratura 2017, 10 euro.

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