Libri

Arpino, Calvino, Torino

Devo alla biblioteca dei miei genitori, o meglio all’ordine scelto negli scaffali più bassi, un’attrazione infantile per certi volumi einaudiani dai dorsi smilzi. In genere erano ristampe di romanzi brevi o racconti lunghi dei plumbei anni Cinquanta. Ingredienti tipici: sullo sfondo una Torino di nebbia, bitume e ruggine, dove il Pci sbiadisce gozzanianamente; in primo piano un impiegato che redige una rivista aziendale accanto a un collega crasso, filisteo, già devoto al miracolo economico e alle sue vacanze sordide o ridanciane, tra Antonioni e Risi. Questo protagonista-narratore è depresso, scapolo, non più giovane. Mangia in trattoria. Abita stanze d’affitto in cui filtra la colonna sonora spettrale di ristoranti e caserme. Legge nel mondo una scia di segnali ambigui. Vive appartato perché anche nella possibile fortuna avverte un allarme, un presagio di catastrofe. Trascina fidanzamenti routinari simili a matrimoni abortiti, e s’imbatte in donne di fredda sensualità.

Uno di questi libretti, riedito oggi da Ponte alle Grazie, è “La suora giovane” di Giovanni Arpino, un piccolo capolavoro del 1959. In una buia fine d’anno, tra il 10 e l’11 dicembre, Antonio Mathis inizia a registrare lo sconvolgimento portato nella sua esistenza monotona da una novizia che incontra ogni sera alla fermata del tram e che inequivocabilmente lo aspetta e lo segue, sempre tacendo. Antonio capisce che deve fare qualcosa, e si vergogna di non avere coraggio. Ma dopo mesi di appostamenti, di sguardi e silenziose prove, finalmente le parla. Poco dopo i due si ritrovano nel palazzo dove lei cura un avvocato moribondo, e attraverso la fessura della porta intrecciano un dialogo notturno che non lascia scampo. Serena, la suora, viene da una famiglia contadina di Mondovì che ora le appare penosa. Non vuole tornarci, ma neanche restare in convento: è avida di consumi, di viaggi, di tutto il mondo grande che non conosce. Stordisce Antonio con un interrogatorio ritmato da assurdi, indimenticabili “Vuoi bene?”, o “Tu: sposeresti?”, e lo induce a giurare. Vorrebbe che lui avesse fatto tutte le esperienze, e al tempo stesso che fosse semplice, per non doversi vergognare della propria ignoranza. E’ “attiva”, “forte come un uomo”, ma insieme aspira a sentirsi “protetta”, a “essere debole (…) lasciarmi portare”. Però anche i modi della debolezza li decide lei, senza appello; e quando ha deciso le si fissa sul volto una calma impenetrabile, fanatica. Antonio, travolto da questa epifania, rompe lo scialbo ménage con la sua Anna e si sente rinascere.

Ma quando si ha già una vita adulta alle spalle, è davvero possibile riconoscere un amore ed esserne riconosciuti, con un’astrattezza che oggi diremmo da chat, senza che si riveli un inganno? Appena Serena scopre in Antonio una traccia di dubbi e debolezze, subito sparisce. E lui riesce ad avere notizie solo andando a Mondovì, dove i genitori gli mostrano un retroscena machiavellico. Così alla fine, mentre la sua tristezza di uomo imbrogliato si decanta in una malinconia limpida, lasciamo il protagonista sotto un tabellone ferroviario, incerto se strappare la ragazza al nuovo convento ferrarese o tornare a Torino.

Rileggendo la “Suora” ho ripensato a un altro di quei libretti einaudiani, uscito appena un anno prima: “La nuvola di smog”, uno dei racconti (con “La speculazione edilizia”, “La giornata d’uno scrutatore”…) in cui il Calvino non più militante e non ancora strutturalista inacidisce il suo umorismo in satira, descrivendo le contraddizioni di un presente immobile. Qui Torino non è nominata; ma ci sono sempre le colline, il fiume, le Alpi in vista, e sotto la camera del narratore crepita il citofono della birreria Urbano Rattazzi. Anche l’io della “Nuvola” ci si presenta in uno stato di desolata apatia: “Era un periodo che non m’importava niente di niente”. Più il paesaggio si screpola, più questo io può restare nella sua sonnolenza ovattata, difensiva. ‘Muoia Sansone’, ecco la sua scelta esistenziale. Lo squallore circostante gli dà una soddisfazione amara, perché ne trae conferma “che la vita non poteva essere diversa”. E’ un uomo in fuga dalla politica: e quando incontra un operaio marxista, alla sua prospettiva storica oppone le ineliminabili pene naturali che saranno al centro della “Giornata”.

Più in generale, questo soggetto calvinianamente parsimonioso e igienista rifiuta ogni promiscuità. Per questo, forse, è così sensibile alla polvere che gli sembra attaccarsi a tutte le superfici. In città è approdato proprio per redigere una rivista ecologica, “La Purificazione”, organo di un ente inutile in cui questa polvere si nasconde anche metaforicamente sotto i tappeti. Il suo capo ingegner Cordà, quasi una grottesca parodia olivettiana, è infatti anche il padrone delle industrie tossiche, e si compiace d’incarnare una titanica dialettica tra eroismo d’impresa e progetti visionari. In una scena esilarante, Cordà e il redattore si arrovellano sulla chiusa di un articolo. L’ingegnere vuole che non suoni né troppo ottimista né troppo pessimista, ma dia appunto l’idea che dove c’è pericolo c’è anche salvezza. Dopo un dibattito in punta di grammatica, per delineare il problema dell’inquinamento si affidano allora a una callida sfasatura verbale: “Lo risolveremo? Lo stiamo risolvendo”. Ma intorno non tutto è grigiore: ogni tanto, con tempi imprevedibili e come da un altro emisfero, arrivano al narratore le telefonate di una certa Claudia dalla voce “fulva e screziata”.

Questo fantasma di un’aristocratica da rotocalco piomba in città e riparte secondo il suo capriccio, trasformando a propria volta l’anonimo compagno in una proiezione. A un certo punto lui scrive un pezzo in polemica con l’euforia mondana di lei, sostenendo che solo se ci si immerge nello smog si può toccare la verità delle cose e trasformarle (qui parla il Calvino che crede necessario scontare fino in fondo la modernità). D’altra parte è con Claudia che un giorno scorge all’orizzonte i confini della nuvola, verificando che non è informe e ubiqua. E il racconto termina appunto su una breve uscita oltre confine, un’ora d’aria nella quale il protagonista insegue il bucato dei cittadini dentro un borgo di lavandaie, Barca Bertulla, camminando tra vigne di panni appesi in una luce depurata. E’ un finale insieme malinconico e aperto come quello della “Suora giovane” e di altri libri scritti all’alba del boom, come “La ragazza di Bube” o “Il giorno della civetta”: testi diversissimi, ma dove si respira una comune atmosfera a metà strada tra nostalgia e convalescenza. Forse esiste ancora un mondo futuro da conquistare, ma non somiglierà a quello su cui si è conclusa l’epoca delle speranze giovanili. La nuvola è un fatto ineludibile, il resto un’immagine vaga da contrapporle per ricordarsi che non coincide con la realtà intera. “Il corso normale delle stagioni pareva cambiato”, avverte già il chiacchiericcio, non si sa quanto giornalistico o scientifico, che circonda l’apatica silhouette calviniana. Ma il nembo che ha avvolto Torino in questo autunno 2017 sembra molto più cupo. E fuori città, anziché Barca Bertulla, c’è la Val di Susa in fiamme.

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