Pop/Rock

Dylan

Gore Vidal – che almeno per i suoi saggi il Nobel se lo sarebbe meritato – non sarebbe stato contento. «La gente vive d’illusioni», scriveva (Literary Gangsters). «Si tratti di quello studente del college che si alza in piedi alla fine della conferenza e dichiara, non chiede: “Non crede che Bob Dylan sia il più grande poeta vivente?”. O si tratti di Richard Nixon che non vuole essere il primo presidente americano a perdere una guerra». Ma Vidal ironizzava sul poeta-paroliere Dylan nel 1970, quando Dylan aveva ventinove anni e cantava da meno di un decennio. Non avrebbe smesso di scrivere canzoni per i successivi quarantasei anni, ed è questa incredibile fecondità – unica nel numero, spesso suprema, pace Vidal, nella qualità – che l’Accademia di Svezia ha voluto premiare col Nobel per la letteratura, giovedì scorso.

Come succede con quegli artisti che hanno vissuto e lavorato a lungo, e senza mai veramente ripetersi (come succede con Allen, o Picasso, o Philip Roth), ognuno ha il suo Dylan, ognuno ha un periodo e un fascio di canzoni a cui è particolarmente devoto. E naturalmente la devozione, se tenuta viva dagli ascolti, può cambiare con gli anni (arriva abbastanza presto un momento della vita in cui Blowin’ in the Wind diventa inascoltabile). Il Dylan che proprio non si può non amare è quello degli anni Sessanta, quello che sfornava canzoni a decine, a centinaia, quello che – come ricorda uno dei suoi biografi, Daniel Epstein – «temeva di andare a dormire la sera per paura di perderne anche soltanto una». In meno di tre anni, tra il 1964 e il 1966, fa uscire tre album (The Times They Are a-Changing, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde) che da soli non bastano forse per il Nobel, ma sono più che sufficienti a farlo considerare come il più grande cantautore della sua epoca (per capirsi, l’abbondanza è tale che il capolavoro che è Positively 4th Street – «Yes, I wish that for just one time / You could stand inside my shoes / You’d know what a drag it is / To see you» – non trova posto in nessuno dei tre album).

Di lì in poi si possono avere, sull’evoluzione della sua carriera, idee diverse. Ma c’è un largo accordo sul fatto che il disco centrale degli anni Settanta, Blood on the Tracks (1975) sia uno dei più bei dischi rock di tutti i tempi. E mentre nessuno ha il coraggio di rivalutare i dischi della ‘svolta cristiana’, tra i Settanta e gli Ottanta, non si può negare che negli ultimi trent’anni, in mezzo a molte canzoni dimenticabili, Dylan ha scritto parecchi capolavori. Secondo me: Infidels (1983) in blocco; Oh Mercy (1989) in blocco; e tra i singoli, in ordine crescente di perfezione, Things Have Changed, Most of the Time, Series of Dreams (sì, la Più Bella Canzone di Sempre).

Dopo decine e decine di canzoni ascoltate mille volte, dopo gli articoli su di lui, dopo aver letto le sue memorie, Chronicles, uno si aspetterebbe di conoscerlo come le sue tasche, invece no. Si sa più o meno cosa aspettarsi da Neil Young, o da Cohen, o da Jagger; ma Dylan è diverso. Le sue interviste sono rare, laconiche, contraddittorie, disseminate – come lui stesso ha detto una volta – di mezze verità o di bugie («The press? I figure you can lie to them»). Sulla sua vita privata è sceso un velo nel 1966, quando a venticinque anni si è ritirato a vivere in campagna con la prima moglie, e il velo non è mai più stato davvero sollevato. Le sue canzoni parlano e non parlano di lui. Non che manchino le idee espresse chiaramente (da, per citare due meraviglie, The Lonesome Death of Hattie Carroll [1964] a Workingman Blues #2 [2006], Dylan ha sempre scritto canzoni in difesa della dignità della povera gente), o i frammenti di vera autobiografia: Dylan è sempre intensamente personale, anche quando racconta la storia di un pugile accusato a torto di omicidio. Ma nei suoi testi più complessi e interessanti (per esempio in Tangled Up in Blue) le personae si sovrappongono, il filo della trama si perde nel vortice dei giochi di parole e nelle associazioni mentali, chi sia davvero l’io che sta parlando non si capisce più. Per quanto insopportabilmente pretenzioso fosse il film, pochi titoli sono stati più azzeccati di quello del biopic di Todd Haynes I’m Not There.

Infine c’è Dylan in pubblico, che è davvero uno degli spettacoli più deliziosi che lo star-system dell’ultimo mezzo secolo sia riuscito, chissà come, a produrre. Da giovane era, semplicemente, consapevole di essere un’icona, e la sua serena noncuranza, o spocchia, in mezzo agli altri, si spiegava ovviamente così. Da vecchio ha pose su cui si vorrebbe il parere di uno psichiatra. Patologico narcisismo? Timidezza? Autismo? Semplice stronzaggine? Guardatelo alla fine della penultima puntata del Letterman Show, mentre Letterman lo ringrazia e gli indica il pubblico acclamante, e lui si gira dall’altra parte; oppure alla Casa Bianca, con Obama che gli mette al collo la Medal of Freedom, e lui – occhiali scuri, faccia scura (chi lo ha visto sorridere, negli ultimi anni?) – lo ringrazia con una pacca sulla spalla e se ne va. Sociopatia? Difficile dire, ma a Stoccolma, sempre che ci vada, ascolteremo probabilmente il più strano discorso di accettazione dell’intera storia del Nobel, un carosello di smorfie e borbottii.

Resta la Questione Teorica, quella che agita i pensatori. «Gli scrittori protestano: lui che c’entra?», era il già memorabile titolo del sito del «Corriere» giovedì pomeriggio (catenaccio: «Baricco è dubbioso, Irvine Welsh si scaglia contro l’Accademia svedese»). E insomma: può la canzone, ancorché d’autore, permettersi di pareggiare la Letteratura [qui l’autore alludeva, vanamente, a Benigni, 1’28” ndr]? Non c’è davvero niente che non vada nella serie Montale-Miłosz-Brodskij-Heaney-Dylan?

A me sfugge il senso di queste remore. Perché non si tratta di dichiarare che le canzoni sono come le poesie, o sono le poesie del nostro tempo, né che i testi di Dylan si possono leggere come si leggono quelli di Montale o di Brodskij; si tratta di prendere nota con gratitudine del fatto che da mezzo secolo a questa parte un nuovo genere è venuto ad arricchire e a complicare il macrogenere che chiamiamo Letteratura. C’è stato un tempo in cui un autore di sonetti non avrebbe vinto il Nobel, perché i sonetti erano considerati nugae; e c’è stato un tempo in cui non lo avrebbe vinto un romanziere, perché i romanzi venivano liquidati come roba per signorine. Le cose cambiano, se sono vive. E del resto, se è indubbio che ci sono cose che una canzone non può dire tanto bene, tanto esattamente quanto può dirle una poesia, è anche vero il contrario, cioè che la sola carta non basterebbe a contenere l’invettiva di Like a Rolling Stone, o l’inno di Chimes of Freedom, o il sogno medievale di All Along the Watchtower. Se non sai metterli in musica, non li puoi dire.

E comunque di queste cose, alla fine, non giudicano gli intellettuali ma il senso comune, e il Senso Comune si è espresso con classica tempestività: «Mentre siamo al lavoro sui numeri della stabilità arriva la notizia di #BobDylan Nobel per la letteratura. La poesia vince, sempre» (Matteo Renzi, tweet di giovedì 13 ottobre, ore 13.28). Ma infatti.

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