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Domani esce questo giallo, caso mai.

[…]

«Dunque tu hai seguito, no?» mi accolse Galliano.

Alzai un sopracciglio, interrogativo.

«Questa cosa di queste isole. Le isole… So-lov-ki» sillabò picchiettando coll’indice sulla prima pagina del “Corriere”, che in taglio basso riportava la notizia.

Sì, sapevo, avevo seguito, distrattamente, soprattutto sui giornali locali. Da circa una settimana si erano perse le tracce di tre ragazzi italiani in missione “per conto dell’Unesco” alle isole Solovki, in mezzo al Mar Bianco. L’ambasciata italiana in Russia aveva mandato un suo incaricato sul posto. L’Interpol, dicevano le agenzie, si era attivata. Ma niente. E più niente anche sui giornali. Era chiaro che la cosa sarebbe stata archiviata, era già stata archiviata, insieme alle tante altre morti di turisti che ogni anno riempiono le cronache per qualche giorno: un’imprudenza, una fatalità. È vero: non si erano trovati i cadaveri, e questo era strano perché le isole non erano poi tanto grandi. Ma intorno alle isole c’era il mare e – stando alla ricostruzione della polizia russa – il giorno della scomparsa i tre ragazzi avevano detto di voler andare verso la parte nord dell’isola, quella che guarda verso il Polo, la più battuta dalle onde: onde che, in passato, avevano tradito più di un pescatore esperto, trascinandolo dalla riva al largo, e poi in fondo al mare. Ed era lì, secondo la polizia, che si trovavano i cadaveri dei tre italiani: sotto duecento metri d’acqua, sul fondo del Mar Bianco.

«Quelli sono di Firenze, no? Tu stai sempre a Firenze, no? Così ho pensato a te…»

Ringraziai per la preferenza. Sorrisi. Sorrise anche lui. Sì, i tre ragazzi scomparsi erano fiorentini. E sì, anch’io stavo a Firenze, anche se per nessuna ragione particolare, dopo che mi ero separato da Gaia, mia moglie, che era fiorentina-fiorentina: vale a dire, nel gergo della città, fiorentina del centro, anzi della collina, di una vecchia autentica famiglia fiorentina, gente con le case e coi soldi, non un’immigrata dal contado. In sostanza, restavo a Firenze solo perché in Toscana avevo tutti i miei contatti coi giornali locali, e a Roma o Milano c’era troppa concorrenza e nessuno mi voleva.

«Eh sì, sto sempre a Firenze. Finché tu non mi chiami a Milano…»

Naturalmente Galliano sapeva che avrei dato un braccio per essere assunto a “Fatti”. Il direttore precedente me l’aveva quasi promesso. Poi se n’era andato e tutte le sue promesse – assunzioni, riassegnazioni, scatti di carriera – erano passate a Galliano. Lui qualcuna l’aveva stracciata, qualcuna la stava mantenendo. Io ero in bilico, e a Galliano faceva comodo che ci restassi.

«Caro Capace… figurati se non mi farebbe comodo averti qui, a due passi, nell’ufficio accanto, invece di farti venire apposta da Firenze… Tu poi sei Capace!», e ridacchiò. Io mi chiamo Capace, Alessandro Capace, e nemmeno dopo la decima replica Galliano trovava il gioco di parole troppo scontato per poterlo ripetere. Un coglione? Certo che era un coglione. Ma era anche il direttore, e aveva nelle mani i miei successivi trent’anni di carriera. Ridacchiai anch’io.

«Noi siamo in piena tempesta internet. ’Sta cazzo di internet. Cosa vuoi? Non assumiamo giornalisti, ormai, assumiamo informatici… Probabilmente il prossimo anno, se nella strategia del Gruppo…» Fece una breve pausa e concluse: «Comunque, mo’ tu fatti questo servizio e vedrai che…». Era così. Non gli avevo mai sentito finire una frase. Era un virtuoso dei puntini di sospensione, un olimpionico del sottinteso. Ogni suo discorso finiva in un mormorio confuso, accompagnato da un gesto di fastidio e stupefazione insieme: come se il mondo, per qualche strana ragione, si ostinasse a non voler seguire i consigli di Vincenzo Galliano da Agropoli. O forse era una rara forma di dislessia. Che nessuno comunque avrebbe mai scoperto, dal momento che erano anni, ormai, che non scriveva una riga, neanche gli editoriali. E la storia del Gruppo era una balla. Il Gruppo Editoriale Merda – come affettuosamente lo chiamavano i miei non-colleghi di “Fatti” – non c’entrava niente. Il Gruppo erano lui e il padrone del giornale. Erano loro due che facevano tutto: strategie, organigramma, buste paga.

«Io qua sono, per ogni evenienza» conclusi io, sempre in bilico.

L’idea era quella di contattare le famiglie, intervistare genitori fidanzate amici, capire che tipi erano i tre ragazzi e poi eventualmente partire per le Solovki e cercare di tirar fuori dalla faccenda – per usare la formula con cui Galliano mi aveva congedato – quanto più “sangue e mistero” fosse possibile. Galliano sottolineò tre volte “eventualmente”. Il compenso era buono, anzi ottimo dati i miei standard ma, “tu lo sai meglio di me”, era imperativo contenere le spese. Viaggio alle Solovki solo se necessario, e comunque al risparmio, e non prima di una “esplorazione del caso a distanza”. Poteva essere una cosa alla “Levrieri e mastini”, insomma, ma poteva anche essere qualcosa di meglio.

Io in quel periodo stavo lavorando, tra l’altro, a un’inchiesta sulla sanità italiana che mi pareva potesse portare a risultati interessanti: una storia di valvole cardiache mai collaudate messe in commercio grazie alla complicità di un certo numero di chirurghi e a un giro di mazzette. Un vecchio compagno di scuola che lavorava alla Procura della Repubblica di Torino mi aveva detto che l’indagine era partita già da mesi e di lì a poco ci sarebbero stati degli arresti – gente importante, anche pezzi grossi della politica cittadina. Io avevo già pronto un articolo, forse due, e grazie al mio amico avevo discrete speranze di intervistare almeno un paio dei medici “buoni” che avevano denunciato la truffa. Per quanto ne sapevo ero il solo che stesse seguendo la faccenda, in Italia. Lo dissi a Galliano, più che altro per fargli capire che avevo un’agenda già piena, che facevo sempre in tempo a rifiutare, e che insomma dovevano trattarmi bene. Lui estrasse dalla pila dei giornali l’ultimo numero dell’Espresso. «Questo è uscito oggi» m’informò. In copertina c’era la faccia di un chirurgo, la cuffia sulla testa, la benda sulla bocca. Il titolo diceva: Senza cuore. E il sottotitolo spiegava: «Valvole difettose nel cuore dei pazienti degli ospedali torinesi? L’inchiesta-choc dell’Espresso». Stavolta fu lui il primo a sorridere. Sorrisi anch’io. Ci accordammo per un primo pezzo con consegna di lì a tre giorni: sangue e mistero alle isole Solovki.

[…]

Claudio Giunta, Mar Bianco, Mondadori 2015.

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