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Tra supercazzola e Lapalisse. Su Habermas e i suoi fans

Il 27 marzo scorso, Repubblica apriva le pagine culturali con un brano tratto da Verbalizzare il sacro, il nuovo libro di Jürgen Habermas (Laterza). Titolo: La mia critica della ragione laicista. Succo: «L’universalismo dell’illuminismo politico non dovrebbe affatto essere in contraddizione con le sensibilità particolari di un beninteso culturalismo». Il filosofo raccomanda di armonizzare «l’eguaglianza politica e la differenza culturale», e distribuisce moniti sia ai multiculturalisti catafratti che ai secolaristi spinti. Ai primi ricorda che i «discorsi» dei diversi gruppi religiosi non sono «incommensurabili», ai secondi che non bisogna relegare le fedi nella sfera privata ed essere «laicisti», cioè ostili alle credenze inverificabili, ma laici, parola qui associata solo a un agnosticismo non polemico. Habermas ha il tono di chi si sente al di sopra della mischia, e crede di vedere ciò che le fazioni in lotta non vedono: cioè la sostanziale «complementarità» (parola-tic di questo ex dialettico) delle istanze identitarie e universalistiche, che un ragionevole sforzo può pacificare in una «convivenza riflessivamente illuminata».

Da laico, in particolare, è ai suoi che il filosofo si rivolge, invitando a non «escludere a priori di poter scoprire contenuti semantici dentro ai contributi religiosi». Ora, basta una frase del genere («contenuti semantici», «contributi religiosi») perché qualunque umana passione, poco importa se laica, laicista o fondamentalista, si afflosci di colpo. Il linguaggio fa a pugni col tema. È come se qualcuno, per spiegarci l’eros, ci dicesse che necessita di una lubrificazione soddisfacente. Habermas invita i suoi lettori a essere più umani proprio mentre parla come un sintetizzatore vocale di tradizioni filosofiche. La pagina di Repubblica è la perfetta sineddoche di un’opera che nel suo monotono ron ron tecno-buro-sofico ha placidamente digerito qualunque Grande Tema (Scienza, Comunicazione, Bioetica) restituendone un’immagine più generica che generale. Il lessico, come sempre, accentua il polisillabismo continentale: il «postsecolarismo» è qui l’ultimo arnese di una ferramenta di ‘post’ (postmetafisica, postkantismo) che vorrebbero opporre al postmodernismo un aldilà del moderno capace di mantenerne le promesse in forme tenui ma planetarie.

E al solito, l’autore sembra credere che per ‘superare’ i conflitti basti allineare dei gusci concettuali che accolgono e neutralizzano ecletticamente i più diversi ‘contributi’: un po’ di marxismo e un po’ di pluralismo, un filo di naturalismo e una goccia di pragmatismo, un omaggio al razionalismo e uno agli ermeneutici, a Freud il cerchio e a Husserl la botte, un inchino alla linguistica e uno al giure, una professione di democrazia radicale e una di liberalismo vecchio stile. Ne risulta la vaga indicazione di una perenne ‘terza via’, di un debole kantismo passato per la retorica tardonovecentesca del dialogo «intersoggettivo», come si dice con un aggettivo tipicamente pletorico. Così, lungo mezzo secolo, Habermas ci ha aggiornato sulla crisi delle moderne speranze emancipatorie, ma insieme ha insistito sul fatto che si può considerarle astoriche, e perfino realizzarle con un po’ di buona volontà globale.

È partito dalla dialettica dell’illuminismo di Adorno, ma davanti alle sue conseguenze si è ritratto mugugnando che no, la ragione non cova in sé ciò che la mina, e che la tecnica è solo uno strumento, basta tenerla al suo posto e si sta tranquilli: posizione laica davvero ‘cattolica’, nella sua moderazione fiduciosa. In effetti Habermas è una specie di tomista dell’illuminismo, di cui classifica pedantescamente tutto ciò che è stato un tempo mobile, empirico e vitale. Morale dell’omelia: a costo di ottenere un cibo insipido, mangiate un po’ di tutto ma non esagerate con niente, consiglia il filosofo come i medici d’antan. Osate, ma con moderazione, come diceva il predicatore Frank di Ricomincio da tre, ripetendo con la stessa enfasi di praticare un ‘dialogo’ che non si sapeva mai cosa fosse. Anche in questo senso, l’emersione di Habermas negli anni Sessanta rappresenta bene la deriva universitaria della Scuola di Francoforte.

Prima di morire, Adorno aveva tentato acrobazie sempre più difficili per impedire che la sua dialettica negativa si sclerotizzasse adattandosi alla nuova cultura dominata da specialisti e opinionisti. Ma era un caso a sé, e stare sul filo non si poteva più. Perciò, mentre trionfavano strutturalismi e mass media, il suo allievo si rifugiò nel corporativismo accademico. Se Adorno teneva insieme astrazione metafisica e concretezza da critico del costume, Habermas schermò la sua poca immaginazione sociologica dietro la maschera pompier del filosofo universalistico. Così l’eredità adorniana si divise, e la concretezza aforistica, cioè il lascito più fecondo, in un’epoca orfana delle totalità hegelo-marxiste, andò a nutrire gli ibridi reportage culturali di Enzensberger, dove la dialettica è tanto viva quanto implicita, e la demistificazione è condotta attraverso un senso comune che è il contrario del buonsenso metodologico di Habermas.

Indagando su tv e crimine, turismo e rivoluzione, società europea e radicalismo fondamentalista, questo scrittore propone un saggismo in prosa e in versi dove la teoria illumina i propri oggetti dall’interno, senza mai giustapporvisi, e procede con montaggi a zig zag per aderire a una realtà non lineare né organica. Anziché predicare il dialogo tramite una monolitica forma trattatistica, lo mette in scena, suggerendo le crepe che si aprono tra pensiero, esperienza individuale e collettiva. La sua alternanza di lievità ironica e critica dell’ideologia, di prospettiva apocalittica e cordialità giornalistica, fa pensare a una singolare fusione di Adorno e Brecht, o di Calvino e Fortini, o di Benjamin ed Herzen, o di Auden e Orwell. Se Enzensberger schiva la cattiva infinità bulimica ed euforica della French Theory e del postmodernismo letterario, rifiuta anche il depresso ruminio teorico dei postfrancofortesi. Ed è proprio la sua asistematicità mercuriale a consentirgli di restare fedele ai suoi nuclei profondi: mentre Habermas, così inamidato, lascia che le sue vuote cornici epistemologiche siano via via riempite dalle mode.

Occorre aggiungere che c’è molto più illuminismo e molta più filosofia nell’autore di Palaver? E che se, malgrado la diffusa retorica nicciana sul legame tra stile e pensiero, scrittori come lui non vengono citati nei manuali, dipende solo dal settorialismo merceologico-dipartimentale denunciato un tempo a Francoforte? Ma oggi va male anche a chi, pur avendo avuto le carte accademiche in regola, non ha ceduto né alle suggestioni misticheggianti né a un blando universalismo: nel monumentale Le filosofie del Novecento di Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari, ad Habermas sono dedicate trenta pagine, ad Adorno dieci. Ed è giusto: perché il primo incarna perfettamente l’idea che del Filosofo si fa un ceto intellettuale orgoglioso della cultura liceale sfoggiata da Scalfari, quella dell’alto mare aperto e dell’incontro con Io. E in verità, la pagina di Repubblica avrebbe forse potuto firmarla il Fondatore, col ‘contributo’ di uno dei tanti collaboratori metafisico-politologico-giuridici che regalano settimanalmente a Largo Fochetti le loro lenzuolate, poco importa quanto laiche, laiciste o credenti, perché sempre fiduciose nel fatto che il massimo livello teorico lo si tocca oscillando tra la supercazzola e Lapalisse.

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