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Tutta la solitudine che meritate (l’inizio del libro)

 

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Questo è l’inizio del reportage di Giovanna Silva (foto) e mio (testo) «Tutta la solitudine che meritate. Viaggio in Islanda» (edizioni Quodlibet Humboldt). Qui si trova altro materiale sul viaggio + fotografie (meravigliose, devo dire con la massima obiettività) dell’Islanda. Il libro si può comprare qui.

Decollando da Malpensa abbiamo visto la fila infinita dei TIR sulla A4 – un’ora prima anche noi ci eravamo in mezzo. Poi c’è il breve intervallo delle Alpi, i villaggi sparpagliati sui crinali come mucchietti di sassi sulla sabbia, poi la Francia, la Gran Bretagna. Guardando da così in alto ci si aspetterebbero grandi spazi liberi, la rarefazione degli esseri umani, invece è il contrario: ci si rende conto di come la solitudine sia ormai un’esperienza inconsueta, quasi impossibile, per il medio abitante dell’Europa. Riuscite a ricordare un giorno della vostra vita recente in cui non avete visto nessuno?

La costa dell’Islanda appare al finestrino una mezz’ora prima dell’atterraggio, l’aereo la segue per un tratto da est a ovest – perché l’Islanda è sì a nord ma è soprattutto a ovest, la Groenlandia è lì a un passo, il Canada non è lontano – e per una ventina di minuti quello che si vede è solo terra scura, montagne coperte di ghiaccio e il pennacchio di qualche geyser, che potrebbero anche essere soltanto nuvole basse. Le case cominciano più tardi. Ciò che si vede è ciò che si vedeva diecimila anni fa, ed è anche un annuncio di quella che, uscendo da Reykjavík, è la parte più memorabile di ogni esperienza islandese: ci si trova spesso da soli.

La densità della popolazione è la popolazione (320 mila) diviso la superficie (100 mila Kmq), dunque 3.2. Per avere un termine di paragone, la densità del Sudan, che è il Sudan, è di 15 abitanti per chilometro quadrato. Mozambico, 27. Peggio fa solo il Sahara Occidentale, che però non è neanche uno stato: 1.3. Sempre per avere un’idea, la densità di Napoli è 8200 (ottomiladuecento) abitanti per chilometro quadrato. È incredibile che una stessa parola, società, possa designare oggetti così diversi.

Densità di 3 abitanti per chilometro quadrato vuol dire, tra l’altro, che al di fuori delle tre o quattro aree urbane del paese si può guidare per chilometri e chilometri e chilometri senza incontrare nessuno: nessuna macchina, nessuno a piedi. ‘Chiedere la strada al primo che passa’ non è una strategia consigliabile quando si parte per un’escursione. Le cittadine, i villaggi, le case sono eccezioni nel paesaggio. Aggiungete che quasi la metà della popolazione vive nell’area di Reykjavík e proiettate il dato sulla superficie del nord Italia eliminando tutte le città e lasciando soltanto, diciamo, La Spezia nell’angolo sud-occidentale, e un centinaio di paesi grandi come Rio Bo sparsi lungo il confine. In mezzo niente, nessuno.

L’Islanda abitata, l’Islanda utile è così poca che, se leggete un romanzo islandese e avete viaggiato per una settimana in Islanda, conoscete almeno di nome il cinquanta per cento dei posti citati nel libro. E la solitudine si sente, anche: densità di tre abitanti per chilometro quadrato significa che l’unico rumore che si avverte, arrivando nei villaggi lungo la costa, è il ticchettio degli stralli che sbattono contro gli alberi delle poche barche a vela attraccate nel porto.

Il senso di solitudine è acuito dall’ampiezza dello spazio che si riesce ad abbracciare con lo sguardo. E la percezione di uno spazio vastissimo è acuita dal fatto che lo sguardo non incontra ostacoli. In Islanda non ci sono boschi.

All’inizio, la cosa è talmente strana da passare inosservata. Si sale in macchina o sullo shuttle, si percorrono i cinquanta chilometri di deserto di lava che separano l’aeroporto di Keflavík da Reykjavík aspettando che il paesaggio cambi una volta usciti dalla comprensibilmente non alberata zona-aeroporto, ma si arriva in città e il paesaggio non è mai cambiato: è tutto così. I resti fossili dicono che al tempo dell’insediamento in Islanda c’erano boschi di betulle in gran parte delle regioni costiere. Lo conferma l’Islendingabók, il Libro degli Islandesi, che racconta la colonizzazione dell’isola: «A quel tempo [secolo X] l’Islanda era coperta di foreste nel tratto fra le montagne e la riva del mare».

Del deserto attuale non hanno colpa né il freddo né il vento. Popolo di allevatori, i norvegesi che sbarcarono sull’isola cominciarono ad abbattere gli alberi per avere della terra da pascolo per le pecore. Nei secoli successivi la deforestazione aumentò, perché la legna serviva a costruire case e navi, e a riscaldarsi. Da qualche decennio è iniziato il rimboschimento, che però non è bastato a modificare il panorama. Sui viali di Reykjavík, file ordinate di abeti proteggono le case dalla vista e dal poco rumore del poco traffico; e qua e là spuntano parchi alberatissimi curati come bonsai da legioni di giardinieri. Ma fuori città le uniche rare eccezioni alla lava e al muschio sono macchie di alberi giovani addossate a un terrapieno che li protegge dal vento dell’inverno. Niente alberi, niente che rinasce in primavera e rimuore in autunno: questo spreco di energia. Tornati in Italia, se è ottobre, vi sembrerà triste, una tristezza che vi potrebbe essere risparmiata, l’intrico dei rami spogli. Se è maggio, comincerete a trovare tutto questo trionfo di foglie e fiori un po’ disordinato. Vi chiederete se l’arredamento minimal del paesaggio islandese non abbia, dopo il primo impatto, le sue ragioni.

All’inizio, tutti quelli che arrivano in Islanda vedono le stesse cose nello stesso ordine: è un percorso segnato, come nei musei. È vero che in Islanda si può anche arrivare via mare, col traghetto che da Copenhagen attraversa il Mare del Nord, ma è un viaggio lunghissimo. Lo si faceva un tempo, una o due volte nella vita, sulla mitica nave Gullfoss, e ne nascevano avventure, trame romanzesche.

Leggendo L’onore della casa di Laxness, per esempio, s’impara che ci volevano due settimane per andare dalle fattorie del nord del paese a Reykjavík, attraverso il deserto di lava e la brughiera, e altre tre settimane via mare da Reykjavík a Copenaghen. Si andava, si restava lontani per mesi, anni, e nel frattempo quelli rimasti a casa si sposavano, facevano figli, morivano. Nelle chiese dei villaggi la gente continuava a pregare per la buona salute di re danesi che erano morti da anni. Oggi da Londra a Reykjavík ci vogliono due ore d’aereo. Così, per quasi tutti quelli che sono stati in Islanda l’inizio dell’esperienza combacia: sono passati dalla hall coibentata dell’aeroporto di Keflavík allo spazio esterno, che è sempre più freddo e ventoso di come uno se l’aspetta; hanno contemplato con un po’ d’inquietudine, dal finestrino del Flybus, la distesa di muschio e lava che separa Keflavík a Reykjavík; e si sono detti «tutto qua?» sbarcando alla stazione degli autobus, nella spianata deserta che si apre tra la collina dell’università e la collina dove sorge il nucleo della ‘città vecchia’.

E qui ci si separa, ognuno al suo albergo, ma poi ci si ritrova facilmente per le vie di Reykjavík, ci si saluta, anche, un po’ come se si fosse in crociera e ci s’incontrasse per caso sul ponte della nave: gli stranieri che arrivano in Islanda formano, senza volerlo, una piccola temporanea comunità, e le impressioni che poi si raccontano agli amici al ritorno sono, per un buon tratto, impressioni comuni, condivise. «Descrivimi la tua Italia» è una richiesta sensata; «descrivimi la tua Islanda» lo è meno. L’oggetto Islanda, nei suoi pochi ingredienti essenziali, s’impone sui soggetti, vale a dire che non c’è niente che voi dobbiate interpretare, è tutto limpido: semmai è lui, l’oggetto, che interpreta voi.

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