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Cosa sta succedendo in Egitto?

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Una conversazione con Massimo Campanini, curatore di Le rivolte arabe e l’Islam (Il Mulino 2013).

È appena uscito dal Mulino il libro Le rivolte arabe e l’islam, a cura di Massimo Campanini, che è uno dei maggiori esperti italiani del pensiero islamico e della storia del mondo arabo. Oltre a una lunga introduzione di Campanini, il libro comprende saggi di vari studiosi sulla situazione attuale in Egitto, Libia, Giordania, Libano e Tunisia. È un libro di specialisti ma non è un libro per specialisti, e lo raccomando a chiunque voglia farsi un’idea più precisa di ciò che è successo e sta succedendo nel mondo arabo. Quella che segue è una breve conversazione con Campanini sulla situazione egiziana.

Giunta. Sull’Egitto so quello che dicono i giornali, soprattutto italiani, e quello che dicono i giornali si somma ai miei pregiudizi sul mondo arabo. Non un buon modo per farsi un’opinione sulle cose. Quindi prima di parlare di Egitto vorrei farti una domanda sulle fonti d’informazione. Per chi non legge l’arabo, quali sono i canali migliori per capire quel che sta succedendo nei paesi arabi oggi? Una rivista, un paio di siti da suggerire?

Campanini. Per la cronaca, i commenti quotidiani e gli aggiornamenti dell’ultima ora un buon sito è www.mideastwire.com, che pubblica in traduzione inglese articoli dei principali quotidiani del mondo arabo. Per una visione più critica, in una prospettiva di medio periodo, ci sono le analisi del Middle East Report e di MERIP. I think tanks offrono qualche volta papers di buona qualità. Particolarmente utili sono quelli del Carnegie Endowment for International Peace, e tra gli italiani l’ISPI (Istituto di studi di politica internazionale, www.ispionline.it) di Milano e lo IAI (Istituto di affari internazionali, www.iai.it) di Roma. Ci sono anche riviste specializzate sui problemi del Medio Oriente e del mondo arabo-islamico contemporaneo come il Middle East Journal, il Maghreb-Mashrek, l’Annuaire de l’Afrique du Nord, e tra quelli in tedesco, Die Welt des Islams.

Giunta. Nel dibattito sull’Egitto mi pare ci sia un’idea diffusa che si può sintetizzare così: i militari sono intervenuti per evitare che l’Egitto diventasse un altro Iran. Peccato per i morti, certo, ma tutto è meglio di una repubblica islamica ai confini con Israele. Avverti anche tu questa, diciamo, opinione diffusa? È fondata? Davvero Morsi e i Fratelli Musulmani – a parte governare male – stavano cambiando la costituzione in modo illiberale?

Campanini. La conventio ad excludendum dell’Islam politico è una delle caratteristiche costanti della politica mediorientale dei paesi occidentali e della politica interna dei paesi islamici cosiddetti moderati, che però sono o sono stati per decenni dittature repressive dei diritti umani (la Tunisia di Ben ‘Ali, l’Egitto di Mubarak). Basta ricordare, nel 1991-92, il plauso con cui da parte dell’Europa e degli Stati Uniti venne accolto il colpo di stato militare in Algeria, colpo di stato che bloccò il processo elettorale (democratico) che stava portando al potere il FIS (Fronte islamico di salvezza). Poco importa se poi la repressione del FIS ha scatenato i sanguinari GIA (Gruppi islamici armati): l’importante era evitare che in un importante paese del Mediterraneo si affermasse un islamismo che poteva cambiare la costituzione e avviare un percorso di riscrittura (democratica? Certo da vedere, forse non ‘democratica’ nel senso occidentale del termine…) in senso islamico delle istituzioni di governo.

Anche senza fare dietrologie, non ci sarebbe da stupirsi se le stesse valutazioni fossero state fatte nel caso dell’Egitto; o se questo fosse stato l’auspicio dell’Occidente, interessato a proteggere Israele ma anche a impedire a tutti i costi la nascita di una nuova repubblica islamica (che peraltro avrebbe avuto caratteristiche completamente diverse da quella iraniana, visto che in Egitto sono sunniti e in Iran sciiti). L’intervento repressivo dei militari nei confronti dei Fratelli Musulmani ha avuto però anche altre finalità: eliminare un pericoloso concorrente nella gestione politica dell’Egitto, confermare il carattere militare della società egiziana, difendere i privilegi di cui gode l’esercito (che in Egitto è una formidabile potenza economica).

È altrettanto vero che i Fratelli Musulmani miravano a una accelerazione dell’islamizzazione in Egitto, potenzialmente mettendo a rischio i diritti delle minoranze religiose (i copti) e delle fasce più deboli della società (le donne). Tuttavia, la costituzione fatta approvare in tutta fretta da Morsi e dalla dirigenza della Fratellanza Musulmana nell’autunno del 2012 non era così radicalmente retrograda e integralista da implicare una trasformazione violenta, automatica, dall’alto, in senso islamico, delle istituzioni (e dei costumi civili) egiziane. Il fatto che la shari’a sia la principale fonte della legislazione era previsto anche nella costituzione permanente di Sadat del 1971, emendata in questo senso nel 1980 e valida fino alla caduta di Mubarak. Per cui richiamarsi a questa clausola è in fondo una foglia di fico.

Giunta. Però nel bel saggio di ‘Assem Al Dessuqi che hai inserito nel tuo libro leggo:

Gli islamisti hanno iniziato a mostrare il loro vero volto in merito al tema dell’islamizzazione della società, e ciò è apparso chiaro da alcune proposte fatte nell’Assemblea del popolo, tra cui la circoncisione delle ragazze l’abbassamento dell’età matrimoniale per le donne sul modello della società hijazena all’epoca del messaggio profetico, il diritto dell’uomo a intrattenere rapporti con il corpo della moglie deceduta entro le prime sei ore dal decesso… I telespettatori hanno potuto scoprire il livello di caos che imperversa nelle sedute della Camera: i deputati non hanno esperienza di come esporre gli argomenti, di come discutere, non distinguono tra una domanda e un’interrogazione, parlano ad alta voce come se fossero al mercato dei venditori ambulanti dove ogni commerciante pubblicizza gridando la propria merce per attirare l’attenzione della gente, così come si appropriano del diritto degli altri a rispondere o a dare un chiarimento.

Ora, per una parte (la seconda parte di questa citazione) è solo inesperienza, ignoranza della politica: e si potrebbe dire che è uno scotto che ogni nuovo movimento politico di massa che entra nelle istituzioni deve pagare. Ma per una parte (la prima parte di questa citazione) si tratta di provvedimenti che sembrano fatti apposta per spaventare l’occidentale laico (io), o anche l’egiziano laico. Riesci in breve a spiegare che cosa significa adottare la shari’a come fonte di legislazione, e se le proposte di cui parla Al Dessuqi sono le sciocchezze di una minoranza o se corrispondono a un comune sentire?

Campanini. Innanzi tutto, è necessario interdersi bene su cosa significa shari’a. Spesso si legge che la shari’a è il diritto islamico. Questo è vero solo in parte. La shari’a comprende bensì elementi normativi e provvedimenti giuridici, dedotti dal Corano e dalla sunna, ovvero le tradizioni che narrano i detti e i fatti del Profeta Muhammad. La shari’a però non è un corpus di diritto definito e articolato, bensì la base rivelata dell’autentico diritto musulmano, che è il fiqh (articolato a sua volta in diritto civile, penale, di famiglia, eccetera).

Per questo molti musulmani affermano che la shari’a è soprattutto un repertorio di indicazioni morali e di intendimenti etici e comportamentali; e infatti etimologicamente il termine significa ‘via’ (che porta all’acqua). Le regole giuridiche contenute nella shari’a sono poche e limitate a certi ambiti specifici, e inoltre spesso le indicazioni del Corano sono contraddette (spesso in senso peggiorativo) dalla sunna. Per esempio, nulla dice il Corano né della circoncisione femminile né dell’età di matrimonio delle ragazze: queste sono pratiche invalse in seguito alla infiltrazione nell’Islam di usi e abitudini proprie dei popoli sottomessi e conquistati in seguito all’espansione araba.

Insisto sul tema, particolarmente delicato, della circoncisione femminile. Si tratta di una pratica ancestrale africana che è diventata sunna, cioè abitudinaria in Egitto perché l’Egitto è sempre stato a contatto con le culture nilotiche e sudanesi in cui questa pratica era d’uso. Ma non è sancita nella parola rivelata, piuttosto consigliata (e non obbligatoria come la circoncisione maschile) in alcuni trattati di diritto (trattati di fiqh). Se la circoncisione femminile è praticata in Egitto, non lo è tra i berberi né nell’Asia centrale, persiana e turca, proprio perché si tratta di convenzione abitudinaria di uno specifico territorio, mentre non ha alcun fondamento shara’itico. Naturalmente, molti si affrettano a mettere il cappello della shari’a su pratiche giuridiche che vorrebbero applicare a loro piacimento, per dare ad esse una sorta di sanzione divina. Ma in questo modo viene fatto dire a Dio quanto Dio non ha mai detto.

Per esempio, il Corano impone alle donne modestia e riservatezza, ma nulla dice di chiaro e definitivo sul velo, né sul niqab, né tanto meno sul burqa’. Il problema è quello di come si interpretano, ma anche si manipolano le fonti religiose. I musulmani più osservanti e conservatori, come i salafiti, si richiamano all’epoca del Profeta e pretendono di ripetere i gesti e i comportamenti del Profeta, ma le fonti a cui si appoggiano non sono rivelate – in primo luogo il Corano – bensì elaborate per lo più successivamente all’epoca del Profeta stesso per conferire a certe sue presunte decisioni e indicazioni un’aura di normatività e di vincolo. La strumentalizzazione della religione per fini sociali (o politici) è particolarmente evidente nell’Islam, anche se non è affatto un’esclusività islamica.

Giunta. Nel tuo saggio introduttivo ti chiedi se “la shurà [‘consultazione’] potrà divenire una forma di democrazia partecipativa”, e rispondi che le chances perché ciò avvenga sono affidate a una nuova classe dirigente e a una nuova classe intellettuale laica. Ora: c’è, esiste questa classe intellettuale in Egitto e nei paesi arabi? Dove sta? Nelle università? Nei giornali? Si manifesta in qualche modo? Per essere concreti: durante il colpo di stato militare c’erano ‘intellettuali pubblici’ che in Egitto prendevano posizione pro o contro l’esercito? Da fuori non sembra; cioè, è difficile sentire – da fuori – voci arabe laiche. Quelle che si sentono vengono da Parigi o dagli USA.

Campanini. L’utilizzo del termine ‘laico’ in Islam è sempre problematico e foriero di fraintendimenti come quello di shara’itico. In un certo senso, nell’Islam nulla è laico perché l’Islam è “religione e mondo” (din wa dunya) cioè pretende di abbracciare anche gli aspetti sociali e comportamentali della vita degli individui. Ma in un altro senso, nell’Islam tutto è laico proprio poiché la religione ha una valenza e una dimensione eminentemente giuridica e sociale, oltre che spirituale e cultuale. Basti pensare che in Islam le regole del culto sono disciplinate dai trattati di diritto!

Un intellettuale che ragiona all’interno dei paradigmi concettuali dell’Islam non potrà mai essere ‘laico’ nel senso del separare la religione dalla vita quotidiana. Un intellettuale che da Parigi o dagli USA fa propri i punti di vista dell’Occidente si colloca contemporaneamente al di fuori della visione ‘musulmana’. Da un lato, la riforma della shurà o ‘consultazione’ (un pregnante concetto del pensiero politico islamico classico) nel senso della democrazia partecipativa impone una revisione dall’interno dei paradigmi del pensiero classico, ma per essere funzionale deve muoversi appunto all’interno di un orizzonte concettuale determinato da riferimenti religiosi. Dall’altro lato, gli intellettuali pubblici che nel passato hanno fatto riferimento al marxismo (come il siriano Jalal al-‘Azm) o al razionalismo positivista (come gli egiziani Fu’ad Zakariyya e Zaki Najib Mahmud) hanno operato all’interno delle società islamiche ma facendosi portavoce di un messaggio che difficilmente può trovare ascolto nella normale coscienza popolare.

Questo non vuol dire che nei paesi musulmani non vi siano intellettuali ‘laici’ (nel senso occidentale del termine), non vuol dire che nei paesi islamici non vengano importati simboli e abitudini del deprecato occidente (alla Mecca ci sono i McDonald’s), ma altra cosa è cambiare la mentalità profonda della gente. Io non credo che l’opposizione a Morsi abbia davvero raccolto trentatré milioni di firme contro il presidente (in un paese di ottanta milioni di abitanti in cui però c’è il quaranta per cento di analfabetismo). È vero tuttavia che l’opposizione a Morsi ha portato alla luce il contrasto tra quella parte della popolazione che è affascinata dai miti ‘laici’ e quella parte della popolazione che si abbarbica all’Islam come elemento di identità.

Giunta. Tu stai seguendo giorno per giorno la situazione in Egitto. Puoi dirmi cosa sta succedendo e cosa prevedibilmente succederà a breve (da fuori, sembra che l’ordine regni al Cairo, dopo l’arresto di Badie, ma l’attenzione dei media si è molto allentata)?

Campanini. Secondo me è in corso una normalizzazione della rivoluzione che conserverà la sostanza del sistema mubarakiano, dominato dai militari e dai servizi di sicurezza, senza Mubarak. Questo non vuol dire che si tornerà automaticamente al regime autocratico e oppressivo dei tempi del ra’is. Qualcosa cambierà, ci sarà un governo civile, un presidente della repubblica civile, a un certo punto i carri armati scompariranno dalle strade, i giornali avranno spazio per criticare la classe politica (ma questo già succedeva sotto Mubarak). Ma i governi civili dovranno comunque rendere conto del loro operato ai militari, l’opposizione sarà consentita solo se si esprimerà all’interno di certi binari (non quindi l’opposizione islamica organizzata), il sistema continuerà a garantire i privilegi di chi detiene il potere reale. La piazza Tahrir del gennaio-febbraio 2011 non è più quella: in breve tempo, molta acqua è passata sotto i ponti, e la normalizzazione porterà stabilità a lungo andare, ma non maggiore democrazia. Spero naturalmente di essere smentito dai fatti.

Giunta. Partiti e movimenti islamisti in qualche modo ispirati alla Fratellanza Musulmana hanno acquisito negli ultimi tempi consensi elettorali dal Marocco fino al Golfo (come nel caso del Kuwait). Quali sono gli elementi che li accomunano anche nell’ottica delle alleanze internazionali?

Campanini. Le fenomenologie dell’islamismo sono molto varie, e altrettanto varie sono le circostanze storiche che ne determinano le scelte e le tattiche. La matrice originaria di molti dei movimenti islamisti attualmente alla ribalta nel mondo arabo, da reperirsi nella Fratellanza Musulmana egiziana, fa sì che abbiano un comune orizzonte strategico: trasformare la società in senso islamico per garantire, nel lungo periodo, la realizzazione di uno stato ispirato a princìpi religiosi.

Si tratta, da un lato, di perseguire una islamizzazione dal basso che, attraverso la profonda trasformazione antropologica dei singoli individui in senso islamico, garantisca nel tempo un’altrettanto profonda trasformazione prima della collettività sociale e poi dello stato. Tuttavia, lo stato islamico è concetto talmente flessibile, per non dire ambiguo o indeterminato, che potrebbe riempirsi di contenuti istituzionali i più diversi e adatti e adattabili alle circostanze. Così in Marocco abbiamo un partito islamista, Giustizia e sviluppo, conversante col potere, cooptato nel parlamento e schierato favorevolmente alla monarchia; e un partito islamista più radicale, Giustizia e carità, che fa aperta professione di repubblicanesimo e che è escluso dalla partecipazione politica.

In Egitto abbiamo il partito ispirato dai Fratelli Musulmani, Libertà e giustizia, che ha governato per breve tempo con la presidenza Morsi dopo aver vinto regolarmente le elezioni. I Fratelli Musulmani in Egitto hanno optato per l’accettazione dell’agone democratico elettorale, ma nello stesso fronte islamista sono contrastati dai salafiti che assumono una posizione più intransigente tanto dal punto di vista sociale quanto dal punto di vista politico. Un percorso simile è stato seguito da Al-Nahda in Tunisia, con diversi esiti pratici, visto che i Fratelli Musulmani in Egitto sono stati repressi dall’intervento dei militari, mentre Al-Nahda in Tunisia cerca faticosamente di gestire la supremazia numerica ottenuta in seguito delle elezioni del 2011. Altre organizzazioni partitiche in Giordania, per esempio, o in Yemen e Libia operano in relazione alle necessità locali, siano esse quella di confrontarsi con una monarchia di legittimità religiosa (come in Giordania) o quella di confrontarsi con un tessuto sociale condizionato dal tribalismo o dalle rivalità settarie (come in Yemen e Libia).

Peraltro, finora i movimenti ispirati alla Fratellanza Musulmana si sono dimostrati piuttosto pragmatici e in grado di non farsi condizionare dalle rigidità dogmatiche. Credo che questa osservazione  – una volta i partiti islamisti si siano consolidati al potere, fatto tutt’altro che scontato in Tunisia e rovesciato da un intervento militare in Egitto – varrebbe anche sul piano internazionale. Mi sembra improbabile che in politica estera essi assumerebbero un accentuato atteggiamento anti-occidentale, sebbene, certamente, ci sia da aspettarsi un irrigidimento delle posizioni nei confronti di Israele, o, per lo meno, una minore condiscendenza verso lo stato ebraico di quella dimostrata, per esempio, dal governo di Mubarak. Piuttosto, sarebbe interessante verificare se gli islamisti al potere sarebbero maggiormente inclini a una politica, per così dire, terzomondista che privilegi le relazioni Sud-Sud piuttosto che le relazioni Nord-Sud. In questo caso, sì, davvero ci sarebbe un mutamento significativo degli equilibri internazionali rilanciando il ruolo dei paesi emergenti e dei continenti emergenti (come l’Africa) sulla scena mondiale.

Giunta. Ti faccio un’ultima domanda molto ingenua: chi decide la politica estera italiana in relazione a un paese come l’Egitto, o come gli altri paesi arabi? Voglio dire: siamo semplicemente allineati alla UE? O agli USA?

Campanini. La politica estera italiana nei confronti del Medio Oriente (fatte salve certe decisioni ai tempi ormai lontani di Craxi e Andreotti) non ha mai brillato per originalità e indipendenza. Anzi, negli ultimi anni, durante i ministeri Berlusconi, ha addirittura abdicato al proprio naturale ruolo mediterraneo per schierarsi su posizioni atlantiste, appiattite su quelle americane, che inevitabilmente riducono la capacità di intervento diplomatico del nostro paese. Ribadisco che, per storia, memoria e profondità strategica, l’Italia deve mirare a un dinamico ruolo mediterraneo e quindi porsi in posizione di interazione e di dialogo con le nuove dirigenze emerse nei paesi arabi a seguito degli ultimi avvenimenti. Non si tratta semplicemente di garantire gli approvvigionamenti energetici, ma soprattutto di conservare quella posizione di credibilità e di amicizia di cui l’Italia ancora gode presso i popoli arabi.

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