Istruzione

L’inglese è già qualcosa

[Domenicale del Sole 24 ore, 23 giugno 2013]

C’erano una volta i pamphlet politico-culturali in cui in cento pagine lo scrivente metteva a posto il mondo: la scuola così, le istituzioni cosà, qui una riforma, là una rivoluzione. Erano quasi sempre esercizi patetici: di solito lo scrivente era un laureato in lettere che non avrebbe saputo amministrare il suo ménage famigliare, figuriamoci una nazione. Oggi mi pare che si stia cadendo nell’eccesso opposto: siamo tutti consapevoli che le cose sono difficili, che i problemi sono complicati, che le risposte semplici sono risposte fasulle, e così si scrive non per proporre soluzioni ma per constatare che le cose sono difficili, che i problemi sono complicati e che le risposte semplici sono risposte fasulle. In particolare, continuo a leggere libri sulla scuola, l’università e, in generale, la comunicazione della cultura in cui ‘si fa il punto della situazione’ e si dice che le cose non vanno per niente bene; suggerimenti su cosa fare, però, quasi nessuno – suggerimenti, intendo, un po’ più concreti di quelli dettati dalla sublime retorica patria: ‘difendere il diritto allo studio’, ‘premiare i meritevoli’, ‘non lasciare indietro nessuno’, ‘aprirsi al confronto con l’Europa’ e via discorrendo.

L’inglese non basta di Maria Luisa Villa è un opuscolo che tocca alcune questioni cruciali per l’istruzione: il predominio dell’inglese nelle università e nei centri di ricerca internazionali, il ruolo della scienza nella sfera pubblica e nel pubblico dibattito, la comunicazione della ricerca accademica attraverso le riviste. Le tocca, e per ognuna offre una buona base d’informazioni, ma su quello che bisognerebbe fare uno alla fine ne sa quanto ne sapeva prima. Il tono è più o meno sempre questo: «La partita è aperta, le polemiche […] sono molto vivaci e il futuro è ancora tutto da scrivere».

Che fare, dunque? Per punti.

(1) Questione dell’inglese nella ricerca. Villa è allarmata dal fatto che l’inglese è ormai l’unica lingua di scambio tra gli scienziati. Questo sarebbe un male, perché impoverirebbe le lingue nazionali e isolerebbe la scienza stessa dalla – diciamo – pubblica conversazione. «Esiste – scrive la studiosa – un conflitto non dichiarato e largamente sottovalutato tra i vantaggi individuali immediati e i rischi futuri collettivi connessi al monolinguismo nella scienza. La bilancia penderà dalla parte dei primi fino a che il conflitto continuerà a essere ignorato e irrisolto». Ora, il conflitto viene ignorato proprio in quanto irresolubile. Non c’è alcun ‘interesse collettivo’ che possa o debba essere difeso: in materia di lingua – e tanto più in un mondo globalizzato dai media – non si legifera. L’unico interesse che le scuole e le università hanno il compito di difendere non è quello di una misteriosa «collettività» (altrove si parla, altrettanto oscuramente, di «interessi generali della società») ma quello dei loro iscritti. E dato che nel prossimo futuro l’inglese sarà sempre più importante, l’interesse degli iscritti, degli studenti, consiste nell’imparare a parlarlo e a capirlo, e in fretta. Come? Potenziando le mediateche, aumentando il numero delle ore d’inglese a scuola, magari extracurricolari, al pomeriggio (un ministro dell’istruzione aveva proposto, qualche anno fa, di stanziare dei fondi straordinari per «percorsi di approfondimento dello studio di Dante»: ecco, ba-sta!); dedicando un canale RAI del digitale terrestre a trasmissioni non doppiate ma sottotitolate. Chi va all’università dovrebbe anche imparare a scrivere decentemente in inglese, perché è l’inglese la lingua di comunicazione della scienza, e non solo delle scienze dure ma anche sempre di più delle humanities. Invece di spendere i soldi in corsi di greco zero per chi non l’ha fatto al liceo, o in corsi d’italiano scritto per chi a diciannove anni non sa usare il congiuntivo, i dipartimenti dovrebbero creare – come si fa spesso all’estero – dei writing center in inglese; e i nostri studenti (Erasmus e simili) dovrebbero spendere un semestre o un anno accademico non all’Università di Lloret de Mar ma in università che offrano, tra l’altro, dei buoni corsi di inglese scritto.

E la povera lingua italiana? Ma la povera lingua italiana si difende formando dei buoni insegnanti e pagandoli decentemente, oppure – per fare un esempio un po’ meno ovvio – facendo in modo che a dirigere gli Istituti di cultura italiana all’estero siano delle persone colte e capaci e non dei/delle passacarte al guinzaglio degli ambasciatori. Tutto il resto sono wishful thinkings buoni per un congresso all’Unesco.

(2) Questione dell’inglese nei corsi universitari. Soprattutto – Villa qui ha ragione – non troppo zelo. Decidere (se n’era parlato al Politecnico di Milano) che da domani tutte le lezioni dei corsi biennali si terranno in inglese è un’esagerazione. Per certe discipline, è proprio una sciocchezza. Ma l’università italiana non potrà e non dovrà, in futuro, essere soltanto italiana. Facciamo il caso di Turku, Finlandia. Turku ha molti meno atouts di – diciamo – Roma, Italia. Proprio per questo, perché parte svantaggiata e deve vendere bene il suo poco, l’Università di Turku offre un programma di Master in Studi Baltici, con opportunità di soggiorno in Estonia e Lituania, e soprattutto offre dei corsi semestrali per studenti Erasmus (Non-Degree Studies), il tutto ovviamente in inglese. È chiaro che le università italiane avrebbero una capacità di attrazione molto maggiore rispetto a quella di Turku. Ma se non diamo agli studenti stranieri che non sanno l’italiano la possibilità di seguire dei corsi (magari dei corsi-base) anche in inglese, il risultato sarà che uno studente Erasmus tedesco che voglia seguire un corso di paleografia latina finirà a fare un semestre a Turku anziché a Roma: con un po’ di danno per lui (Turku non vale Roma), con molto danno per noi (l’obiezione «lo studente Erasmus tedesco che vuole seguire un corso di paleografia latina ci fa il santo piacere di impararsi prima l’italiano, che è il frutto più polposo dell’albero del latino» non è un’obiezione che abbia senso nell’anno 2013).

(3) Questione riviste. In Italia esiste da qualche mese un’agenzia per l’open access, coordinata da Juan Carlos de Martin del Politecnico di Torino. Si tratta di assecondare i suoi sforzi, di promuovere l’open access in ogni forma possibile. Si tratta, per fare un esempio che mi sta a cuore – e che dovrebbe stare a cuore a tutti dato che si tratta di soldi pubblici – di rifiutarsi di dirigere o condirigere riviste cartacee che costano, per nessunissima ragione al mondo, migliaia di euro alle biblioteche universitarie; si tratta di rifiutarsi di pubblicare su queste riviste; e si tratta invece di pubblicare i propri ‘prodotti della ricerca’ negli archivi online delle università (si tratta perciò di realizzarli, questi archivi, dove manchino). In inglese? Sì, col tempo, meglio se in inglese, in tutte le discipline, perché il dibattito internazionale è in inglese. E se le sfumature si perdono, pazienza.

(4) Questione della comunicazione della scienza al pubblico. Scrive Villa: «È compito della comunità degli scienziati colmare le carenze nelle conoscenze scientifiche dei non esperti (deficit model), e diffonderne i principi in maniera semplice attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Un pubblico più ‘alfabetizzato’ manifesterebbe un atteggiamento più favorevole verso la scienza e accoglierebbe le innovazioni con maggiore entusiasmo». Io non so davvero se l’obiettivo che dovremmo proporci è quello di far sì che la gente accolga le innovazioni con maggiore entusiasmo. A me pare che siano tutti anche troppo propensi a farlo. Il problema, semmai, sta in questo mix letale: un’illimitata fiducia nella scienza unita a un’illimitata ignoranza della scienza. Per cominciare a risolverlo, i mezzi di comunicazione di massa non servono a niente: serve, come per troppe altre cose, la scuola.

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