Università

No, dai, basta… (ancora sulla valutazione universitaria)

[Corriere di Bologna, 16 febbraio 2013]

Quel nome mi ricordava soltanto una vecchia pubblicità di detersivi.  Essendo associato all’infanzia e a Carosello, mi faceva persino una certa simpatia. Non è durata molto. Qualche rigo, e la lettura dell’AVA – il famigerato decreto relativo ai processi di «Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento» dei corsi di studio universitari– mi ha spinto a chiedermi cosa avevo fatto di male per essere diventato un accademico. Improvvisamente, la sigla ha smesso di ricordarmi la mia infanzia, che come tutti gli anziani tendo probabilmente a ricordare come più felice di quanto non sia stata, e ha cominciato invece a farmi presagire un futuro prossimo (invece probabilmente realistico) di giorni dominati dal tedio.

Il decreto era in giro da tempo, in numerose versioni le cui varianti e accrezioni renderanno felici i filologi. Poi è stato presentato da un ministro dimissionario, rendendo un po’ incerto il suo significato effettivo: «lo mette fuori adesso perché i tempi sono maturi», oppure «lo mette fuori adesso perché tanto le conseguenze le pagherà il suo successore?». La programmazione universitaria è ormai ampiamente legata alla capacità di divinare i processi psicologici del decisore.

Il decreto AVA contiene alcune buone intenzioni rispetto alle quali è difficile dissentire. Ma le persegue attraverso un complesso di decisioni che sono spesso l’esatto contrario delle decisioni prese, sulla base delle stesse identiche buone intenzioni, appena l’altro ieri. Non troppo tempo fa, ci è stato praticamente imposto di chiudere gli indirizzi – i percorsi specializzati all’interno di un corso di studio – introducendo forti penalizzazioni. Adesso, a cadavere ancora caldo, queste scompaiono. Peccato sia troppo tardi. I titoli congiunti con atenei esteri sembrano la nuova collezione Armani dell’università italiana. Ora, dopo che ci si è lavorato, non forniscono più alcun beneficio sostanziale. Se l’interdisciplinarità è esaltata, la sua realizzazione è scoraggiata. Non è bello scoprirsi a ripetere la buona vecchia verità di tutti i reazionari, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno.

Ma come si perseguono queste riforme dell’università? Producendo formulari e schede e chiedendoci di sospendere quello che stavano facendo per riempirli. Poco importa che ampia parte dei dati richiesti siano già accessibili a Roma, e che le università li riversino già in un’ampia quantità di banche-dati. Poco importa che ampia parte delle comunicazioni richieste siano tali da scatenare il peggiore ritualismo e formalismo.  Il tutto, naturalmente in tempi strettissimi. Il decreto, approvato da poche settimane, prevedeva la prima camionata di adempimenti già entro qualche settimana. Panico, ansia e poi, naturalmente, la proroga.

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