Critica letteraria

Il sottosuolo. Su “Elizabeth” di Paolo Sortino (e sul romanzo contemporaneo)

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La cosa da non fare con Elisabeth, notevolissimo romanzo d’esordio di Paolo Sortino (Einaudi, Torino 2011) è annetterlo seccamente al filone del non fiction novel, o peggio ancora alla vasta area del neo-neorealismo alla moda: nonostante le apparenze, e comunque lo si giudichi, questo libro va nella direzione opposta, che è quella della visionarietà e dell’ambiguità. Certo, personaggi e vicende narrate sono autentiche – e rimandano al celebre caso di Josef Fritzl, padre di famiglia austriaco capace di sequestrare la figlia diciottenne Elisabeth, di imprigionarla per ventiquattro anni nel bunker antiatomico costruito nel sottosuolo della sua villetta, di violentarla un numero imprecisato di volte, di generare con lei sette figli, fino all’irruzione della polizia, nell’aprile del 2009. Ma intanto questo storia vera non ha nulla di verosimile, e ben poco di spettacolare: è talmente brutale e malata da consegnarsi al lettore senza cedere, al glamour del “fatto veramente accaduto”, nemmeno un centimetro del suo mistero. Se per parlare del presente Sortino ha scelto la storia di Elisabeth, lo ha fatto per gli strati di senso che comprime, e insieme per la sua inossidabile enigmaticità (“Poi tornava seria e piangeva, perché niente aveva senso”); quindi per la potenziale ricchezza strutturale del disegno, per la sua disponibilità a farsi apologo e mito. Il libro si allontana subito dallo stile del referto, per affidarsi invece alla mescolanza tra realismo e fantastico, nel registro della favola nera assai più che dell’horror o del thriller, a cui solo molto superficialmente può essere avvicinato. Nel romanzo gesti sordidi o selvaggi producono conseguenze irrazionali, che ci abituano molto presto all’idea che in questa storia vera le cose accadano come per magìa. Dopo le prime violenze, il corpo di Elisabeth “invecchia di mesi ogni ora”; presto arriva a mimetizzarsi con il cemento grezzo del bunker: “lei e la prigione erano fatti della stessa sostanza” (71). Anni dopo il rapimento, l’identificazione tra la ragazza e la cella sarà completa e soprannaturale: “D’inverno poteva persino veder incupire il soffitto a causa del passaggio di nubi, cogliere col palmo della mano l’abbassamento della temperatura esterna a causa della pioggia. Di ogni ombra proiettata contro il giardino avvertiva lo spessore; le sentiva filtrare attraverso la terra fino a lei” (81).
Sono solo pochi esempi, sufficienti però per capire che non ha davvero senso limitare al perimetro della cronaca nera o agli schemi abusati di genere la gittata di un racconto che, in definitiva, parla non tanto di un atto di violenza, sia pure inaudito, quanto di un mondo, coerente e completo, diverso dal nostro ma in comunicazione con esso. Il mondo in questione è angusto e miserabile, “fango e piscio in un rettilario” (65); ma è anche un riassunto fedele del cosmo, un compendio di storia dell’umanità; “nido” (Vasta), “eden paradossale” (Siti), teatro della seduzione e dell’ambivalenza. Mentre il carnefice, invecchiando, non può fare a meno di amare la sua vittima come il padre che effettivamente è (“se la penetrazione non era più possibile, poteva almeno aspirare a diventare lei”, 146), la vittima stessa, diventando adulta, non può e non vuole sottrarsi alla ricerca di una reciprocità col padre torturatore. Al ruolo di schiava sostituirà quella di padrona occulta;  al suicidio o alla fuga la vedremo preferire la reclusione; alla negazione del carnefice opporrà la ricerca di una delirante simmetria. La famiglia “di sotto”, incestuosa e clandestina, finirà col duplicare quella legittima “di sopra” nel numero, nel sesso e perfino nell’ordine di nascita dei figli.

L’idea di descrivere una famiglia del sottosuolo come degradazione dell’originale e insieme suo superamento è certo una delle più forti del libro, ma non è l’unica. Già in precedenza, più o meno verso la metà del romanzo, una parte della nostra coscienza aveva parzialmente e miracolosamente dimenticato le torture, lo stupro, l’incesto – un po’ perché l’autore ci spinge a curiosare altrove, nella routine e perfino nell’idillio del lager; un po’ perché ci accorgiamo del ricamo mitologico e profetico che si cela sotto una oscenità così intensa. Poco per volta ci scopriamo a contemplare insieme a Elisabeth la mostruosa, commovente novità di quel che sta nascendo. “Il nostro mondo è più grande di qualsiasi cosa, persino del mare e del sole” (137), afferma uno dei figli di Elisabeth, dopo averla baciata sulle labbra, “come aveva visto fare nei film”. Sono i bambini del bunker, nati e cresciuti in cattività, che regalano al lettore le indicazioni più preziose sulla nuova razza, fino a suggerire che la loro esistenza da cavie in qualche modo ci riguarda, che la loro covata allude alla nostra. La cantina in cui vivono è il luogo in cui si mescolano da un lato le forze più arcaiche dell’agire umano (una fallicità lineare e distruttiva, una morbosa, bifida fertilità); dall’altro ipotesi di un futuro in cui segregazione e comfort (la televisione, la piscina) potranno coabitare. Capote o Saviano non c’entrano, c’entrano invece Nabokov e Borges, ma anche Haneke e il primo Lynch: Sortino ha preso un caso di cronaca e lo ha usato come “schema” – sono parole sue – per creare un doppio immaginario della nostra civiltà; non solo e forse non tanto come essa è, ma piuttosto come si appresta a diventare, una volta conclusa l’incubazione abbiamo sotto gli occhi. Per sognarla così bene, questa razza nuova, era forse necessario attraversare l’empiria di un fatto autentico, ma insieme prendersi tutta la libertà possibile – scordarsi del ‘reale’, sospendere le regole della democrazia, della civiltà, del tempo (nel bunker vecchie fotografie rimpiazzano gli specchi, i calendari hanno i fogli strappati, l’unica sveglia è ferma alle 19, 23 del 27 giugno 1985).

Dal punto di vista stilistico Elisabeth è un libro irregolare, tutt’altro che perfetto: privo di misura, troppo sentenzioso, a tratti scritto male – ma per eccesso di maniera, non certo di scorrevolezza. Non è affatto vero, come pure è stato detto, che lo stile di Sortino sia piatto e monocorde; è vero invece che di impennate ce ne sono troppe, forse più di quelle che l’autore potrebbe permettersi da un punto di vista strettamente tecnico. E’ un po’ quello che accade, sempre più spesso, nel romanzo italiano di intrattenimento, che, contrariamente a quello che si tende a pensare, risulta oggi non di rado più sovrabbondante che povero di stile letterario (una letterarietà di cartone, beninteso, a vocazione evasiva). Elisabeth non è intrattenimento medio, ma letteratura vera; succede però che in un’opera come questa, dall’alto tasso metaforico, non tutte le metafore convincano: alcune pagine non vanno – altre in compenso sono straordinarie. Ma si tratta, sia chiaro, di dettagli. Di fronte a un libro così potente ed ispirato sarebbe perbenistico fare ostruzionismo con richiami a un linguaggio più “d’azzardo” (Gilda Policastro su «Alias» e su «Nazione Indiana»), o con grida d’allarme sui limiti che la letteratura non dovrebbe oltrepassare (Christian Raimo su «Minima&moralia» e «Il Sole24ore»). Da un lato ha perfettamente ragione Sortino a sostenere che uno scrittore ha il diritto di sfruttare qualsiasi cosa gli capiti a tiro, se lo scopo è arrivare a dire “quelle due o tre cose che gli somiglino”. Dall’altro, e più in generale, è difficile non rilevare che un romanzo riuscito non si scrive e non si è praticamente mai scritto soltanto con il senso di responsabilità o la buona educazione, e nemmeno con il sabotaggio o l’eversione della lingua – in particolare la tradizione della Neoavaguardia, cui la Policastro sembra rinviare, non ha mai prodotto, né forse ha voluto produrre dei romanzi straordinari. Il primum del racconto moderno risulta in sostanza anteriore al bisogno coatto di “sperimentare”; si trova piuttosto nella ricerca di una conoscenza specifica, relativistica e completa della vita interiore – quella che scaturisce da un congegno formale capace di moltiplicare punti di vista, anche contraddittori tra loro, e di imporceli attraverso l’identificazione con personaggi o vicende particolari, opportunamente simulati. Poco importa se queste vicende sono autentiche o inventate – o se, come sempre più spesso accade, esibiscono un confuso statuto di realtà; poco importa, in sé, e ammesso che ci sia, il ricorso a schemi o a travestimenti di genere – il romanzo si è spesso travestito da qualcosa, pescando volentieri tra le frattaglie del mercato. Quanto al famoso “lavoro sul linguaggio”, la cosa migliore è non feticizzarlo – anche perché sarebbe riduttivo circoscrivere a quest’ambito l’azzardo dello scrittore, il cui coraggio vero consiste non tanto nell’applicare delle ricette formali più o meno oltranzistiche, quanto nel lasciar parlare nel testo proprio ciò proprio che non conosce, non controlla, e al limite non approva: ovvero nel dimenticare tutte le ricette. Nello spazio narrativo, e specialmente nel racconto realistico, quel che conta in primo luogo è la qualità dell’identificazione, la ricchezza della struttura, la forza della scoperta filosofica ed esistenziale. Non si tratta di un modello elaborato e imposto a fine di lucro dalla grande editoria, o di una moda passeggera figlia dell’imbarbarimento dei tempi – ma semplicemente, nella sua via principale, della cultura del romanzo.  Se si continua a credere nel romanzo come struttura, scoperta e profezia, questo di Sortino è un romanzo vero – non un esperimento, né una buona azione.

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