Cultura e società

Roma o morte. Cultura gratis per tutti?

Sul «Corriere della Sera» del 22 gennaio 2011 è apparso un breve articolo firmato da Salvatore Carrubba, attuale presidente dell’Accademia di Brera e già assessore alla cultura del Comune di Milano. Carrubba biasima la «diffusa considerazione che la cultura sia di competenza esclusiva del soggetto pubblico» e che essa si configuri a tutti gli effetti come un servizio pubblico, i cui costi debbano essere totalmente coperti dallo Stato; definisce un «equivoco» l’idea che «la cultura sia democratica solo se è gratuita» (perché i “consumatori” di cultura sono essenzialmente le fasce sociali medio-alte e i turisti stranieri, cosicché la gratuità di cui questi usufruiscono viene alla fine pagata dai meno abbienti, che in genere frequentano più raramente le manifestazioni culturali); e osserva infine che «la cultura svincolata dal mercato e pagata solo dal soggetto pubblico rafforza i rischi di soggezione degli artisti e degli operatori culturali rispetto alla politica», incoraggiando inoltre quest’ultima a servirsi della cultura come pretesto per elargire prebende e favori ad “amici” e compagni di partito.

Credo che nessuna persona dotata di buon senso possa negare la fondatezza di simili considerazioni. Sul medesimo quotidiano, pochi giorni prima, Angelo Panebianco aveva osservato che gli italiani nutrono nei confronti dello Stato un sentimento ambivalente: ne temono l’invadenza in molti campi (dalle tasse agli autovelox, dalle leggi alla vita privata), ma al tempo stesso ne esigono la presenza in altri, pretendendo, in particolare, che l’erario si faccia totalmente carico di un gran numero di servizi e prestazioni di ogni genere. Negli ultimi tempi, il lamento e la protesta contro i “tagli” sono diventati lo sport nazionale: come se fossero esistite epoche felici in cui, senza tagli, tutto funzionava a meraviglia. Queste epoche, in verità, io non le ricordo: ricordo invece epoche in cui una politica dissennata finanziava tutto a tutti, dalla filodrammatica di Pinerolo alla bocciofila di Canicattì, in cui la Mutua pagava i soggiorni termali, le università organizzavano mega-convegni itineranti di una settimana in alberghi a cinque stelle, i teatri corrispondevano cachet fantasmagorici anche ad artisti mediocri, le amministrazioni assumevano valanghe di dipendenti a prescindere dalle reali necessità.

Abituati, da decenni di assistenzialismo e di clientelismo parassitario (eredità ingombrante della stagione del compromesso storico), a questo delittuoso andazzo, oggi ci sembra inconcepibile che lo Stato non possa o non voglia più accollarsi interamente il costo di certi servizi. Questo vale anche per la cultura, dove molti sono convinti che le possibilità siano solo due: o l’erario riprende a pagare tutto come faceva prima, o si chiudono teatri e biblioteche, musei e università. Roma o morte, potrebbe essere il loro slogan, ossia: finanziamento pubblico o barbarie. Ma che tertium non datur è persuasione sbagliata, dettata da ingenuità o da interessata mala fede, anche perché ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che, qualunque siano i partiti al governo, i finanziamenti pubblici alla cultura non potranno mai più raggiungere i livelli insostenibili del passato. Appare evidente, pertanto, che i fondi statali dovranno essere cospicuamente integrati, e che per ottenere questo le strade possono essere soltanto due: attirare contributi privati e far pagare la cultura a chi ne usufruisce realmente. Due strade difficili da percorrere in un paese che, come l’Italia, è sotto questi aspetti completamente privo di tradizione e, per questo, dominato da “resistenze” pressoché invincibili.

La prima strada passa in primo luogo attraverso due momenti: la defiscalizzazione dei contributi privati e l’obbligo di vincolare tali contributi a precise destinazioni e a tempi altrettanto certi. Il primo momento è ben noto; sul secondo è forse il caso di spendere qualche parola. Negli Stati Uniti, capita spesso che qualche mecenate decida di promuovere la costruzione di un reparto ospedaliero o l’istituzione di una cattedra universitaria. Naturalmente, quando il mecenate effettua la donazione, pone condizioni rigide: i suoi soldi devono servire, poniamo, a costruire un reparto di cardiologia, con precise caratteristiche e in tempi ben definiti; oppure a pagare lo stipendio di un professore che insegna una certa disciplina o di uno studioso che porta avanti una certa ricerca in un ambito specifico.

In aggiunta, si capisce, quel reparto, quel dipartimento, quella cattedra dovranno portare il suo nome; alla Fordham University di New York, lo scorso anno, un ex alunno, l’italo-americano Mario Gabelli, ha donato 25 milioni di dollari alla Business School, che adesso è intitolata a lui. La nostra mentalità statalista rifugge, per mere ragioni ideologiche, da simili procedure. Ma come: io devo essere non “Professore di italiano”, ma “Mario Rossi Professor of Italian Literature”? L’ospedale, anziché chiamarsi “Fatebenefratelli”, deve chiamarsi “Gino Scaragnucchi Hospital” (dove l’ipotetico Scaragnucchi non è un luminare della medicina, ma “soltanto” il capitalista che per scaricarsi la coscienza ha cacciato i soldi)? Ma siamo pazzi? E la libertà della ricerca? No, no, grazie: mi tengo le università senza professori e senza ricerca (e senza sbocchi per i giovani studiosi), e gli ospedali dove può capitarti di stare dieci giorni su una branda in corridoio o al pronto soccorso, per mancanza di posti-letto. Ma con la soddisfazione di poter dire: sì, però ho una sanità e un’università “dure e pure”, cioè interamente pubbliche. Vuoi mettere?

Senza queste condizioni, però, nessun privato investirà mai nella cultura e nella ricerca. Quale mecenate elargirà un solo euro a un teatro lirico, col rischio concreto che i suoi soldi servano ad assumere qualche altra decina di impiegati o a pagare profumatamente qualche cervellotico allestimento “attualizzante” di un celebre regista? Quale privato darà contributi a un dipartimento universitario, sapendo che quel denaro potrebbe essere usato per ripianare i debiti prodotti da decenni di gestione “disinvolta” o per assumere amministrativi e professori al di fuori di qualunque seria programmazione? E i tempi, dove li mettiamo? Con le nostre pastoie burocratico-sindacali, se un privato vuol finanziare la costruzione di un nuovo teatro, può star certo che non lo vedrà prima di morire, e che, quindi, i soldi da lui donati non basterebbero per realizzare il progetto, dato che l’allungamento dei tempi si traduce sempre nel lievitare dei costi.

La seconda strada, dicevo, consiste nel chiedere denaro al cittadino in cambio dei servizi culturali. Faccio un banale esempio. A Firenze, dove vivo, ha fatto molto rumore, di recente, il taglio dei contributi statali e comunali alla gloriosa e meritoria Orchestra Regionale della Toscana (l’ORT). Io vado spesso ai concerti dell’ORT; ebbene, da qualche tempo chi fa l’abbonamento riceve un carnet – che può donare a un amico – col quale si ha diritto ad acquistare due posti di palco al prezzo di uno, per un totale di dodici euro. Ma io domando e dico: è possibile che in una città come Firenze si paghino sei euro per assistere a un concerto sinfonico di una prestigiosa orchestra stabile? Può una manifestazione culturale di alto livello costare come una colazione al bar? È vero che esporre senza alcune protezione la cultura al mercato significa ucciderla, ma è altrettanto vero che la si uccide anche sottraendola del tutto alle leggi di mercato. Perché in un’economia di mercato nessuna prestazione è, di fatto, fuori dal mercato, e chi agisce come se fosse vero il contrario compie una pura e semplice astrazione ideologica. Una volta si diceva che tutto è politica; ma dovrebbe invece dirsi – piaccia o non piaccia – che tutto è anche mercato. Chi non lo dice è ipocrita.

Se pago sei euro il biglietto per un concerto dell’ORT, vuol dire che il resto (il resto, dico, che è necessario per coprire le spese del concerto) lo faccio pagare al contribuente, cioè alla gran massa di cittadini che a un concerto di musica classica non va, e non ci andrebbe neppure se i biglietti costassero un euro, neppure se i teatri pagassero chi va ai concerti. Una malintesa idea di “democrazia culturale” si rovescia – come sempre capita con i principi di natura ideologica – nel suo esatto contrario: è ben noto, analogamente, che in Italia i poveri pagano l’università ai figli dei ricchi, perché le tasse sono inadeguate e perché i giovani di famiglie meno abbienti o non si iscrivono all’università, o hanno maggiori probabilità di non arrivare alla laurea. La vera democrazia culturale è un’altra: agevolazioni e sconti per i giovani e gli studenti (non per gli anziani: gli anziani che vanno ai concerti sinfonici possono permettersi il biglietto intero, e gli altri, se non ci sono mai andati, non cominceranno certo a farlo a 65 anni), biglietti a prezzo ragionevole per gli altri. Sarebbe così scandaloso che l’ORT facesse pagare trenta euro un posto di palco?

Qualche tempo fa, un ministro disse che non si capisce perché lo Stato dovrebbe finanziare i teatri e non, ad esempio, le squadre di calcio, e perché chi va al concerto o all’opera deve godere di agevolazioni economiche (a carico dell’erario) di cui non beneficia il tifoso o l’appassionato di sport. Si tratta di un’osservazione formulata certo in maniera rozza e semplicistica (e che per questo suscitò l’indignazione di chi passa la vita a indignarsi), ma, nella sostanza, non infondata. Il ragionamento secondo cui, poiché il teatro è cultura, lo stato deve in gran parte pagarmelo (anche se io potrei contribuire alle spese in maniera ben più consistente), mentre lo sport è divertimento triviale per gente ignorante (che dunque se lo deve pagare da sola), è un ragionamento classista e antidemocratico quanti altri mai. Lo Stato ha senza dubbio il dovere di sovvenzionare in parte le principali istituzioni culturali (teatri, musei, biblioteche), ma è inaccettabile pretendere che il mio – spesso solo presunto e millantato – superiore livello di cultura si traduca in una agevolazione economica da addebitare alla comunità intera e quindi, in pratica, alla maggioranza di “incolti” che nel loro tempo libero si dedicano ad altre attività “inferiori”.

Molti di noi non battono ciglio se devono spendere cento euro per una cena a ristorante o duecento euro per un telefono cellulare: perché mai, allora, non possiamo pagare un prezzo “realistico” per andare a un museo o a teatro, e perché mai ci sembra assurdo che in certe chiese si possa accedere solo previo pagamento di un biglietto? Parlavo poco tempo fa con il direttore di un’istituzione culturale di provincia, che lamentava, al solito, il drastico taglio dei fondi statali; ebbene, costui, con aria compunta e sconsolata, mi diceva che, per evitare la chiusura, sarà costretto a far pagare ai visitatori un biglietto di ben due euro, mentre fino ad oggi l’ingresso, ovviamente, era gratis per tutti, grazie allo Stato benefattore. Ma era davvero giusto che fosse così? Non è solo una questione di “mercato”; è anche questione di riconoscere la “dignità” del lavoro artistico e culturale, cui, come a tutti i lavori, deve essere riconosciuto e corrisposto un equo compenso anche da parte di chi ne beneficia effettivamente. Altrimenti facciamo come quei genitori che si ribellano all’idea di dover acquistare per i propri figli i libri, ma trovano del tutto naturale comprare loro zaini costosissimi e scarpe firmate. Ma è anche una questione di “mercato”, una parola che – soprattutto se riferita alla cultura – a molti fa orrore, ma che invece dovrebbe suggerire alcune serene considerazioni. Mi limito a proporne due, facenti capo a quella salutare funzione di controllo che il mercato inevitabilmente svolge.

La prima è ovvia: se un teatro non si adegua, almeno entro certi limiti, alle leggi di mercato, chiude i battenti, a meno che non pretenda di vedere regolarmente ripianati dallo Stato, a piè di lista, i suoi esorbitanti debiti. In questo caso, il mercato funge da incentivo agli amministratori, inducendoli a una gestione oculata e scongiurando il rischio che i figli debbano pagare le colpe dei padri, cioè che per le spese faraoniche del passato i cittadini restino oggi senza un teatro. La seconda considerazione riguarda invece il ruolo del pubblico pagante. Pensiamo, ad esempio, ai finanziamenti erogati dallo Stato al cinema (ma il discorso può estendersi a ogni altro ambito, dalla musica alle mostre). In Italia si sovvenzionano film cosiddetti “d’autore” che nessuno vede e che spesso neppure approdano nelle sale. Libertà della cultura dai condizionamenti del mercato, dicono i registi, e a volte sarà senz’altro così; più spesso, però, si tratta solo della libertà di fare film senza doversi curare del giudizio degli spettatori, perché si hanno comunque le spalle coperte dai contributi ministeriali, spesso inevitabilmente concessi sulla base di considerazioni clientelari. Alla base, ancora una volta, sta l’idea che la cultura vive in una sorta di dorato iperuranio, per cui può disinteressarsi dei gusti del pubblico, anzi deve, poiché – come dicevano, fra gli altri, gli adepti del Gruppo ’63 – l’arte che piace ed ha successo è arte borghese, falsa e consolatoria.

Certo, come ha scritto Severino Salvemini (sempre sul «Corriere», il 27 gennaio), «l’attività artistica ha natura meritoria (merit good) e cioè deve essere comunque garantita la fruizione di beni ritenuti utili, indipendentemente dalla presenza di una domanda congrua esercitata dal cliente», perché «in questo ambito non c’è la sovranità del consumatore, come nel rapporto tra domanda e offerta più tradizionale». È assurdo, ad esempio, che una biblioteca pubblica distrugga un libro solo perché nessuno lo ha richiesto in lettura o in prestito negli ultimi dieci anni, o che si chiuda un museo perché ogni anno è visitato, che so, da meno di cento persone, o che non si possa stampare un libro su Dante perché non venderà mai un numero di copie sufficienti a coprire le spese di pubblicazione. L’intervento pubblico è dunque necessario, così come le donazioni private (se si dovessero coprire le spese di un teatro col solo ricavato dei biglietti, ogni spettatore dovrebbe sborsare ogni volta centinaia di euro per assistere a un concerto o a una commedia); né la cultura può essere brutalmente e completamente abbandonata alle inesorabili leggi del mercato, come se fosse una fabbrica di lavatrici o una catena di ristoranti. Ma seguendo fino in fondo l’argomentazione di Salvemini, si arriva a giustificare qualunque abuso in nome della cultura, quegli abusi che, insieme a molti altri, hanno condotto allo situazione attuale: l’apertura di sedi universitarie dove non ci sono studenti (perché ognuno ha diritto ad avere la “sua” università), l’organizzazione di mostre ed “eventi” da parte di enti locali interessati soprattutto all’elargizione clientelare del denaro pubblico, o la pubblicazione a spese dello stato di centinaia di riviste accademiche utili solo a soddisfare le micro-ambizioni di alcuni docenti e a far sì che i giovani meno dotati possano accumulare le pubblicazioni necessarie per vincere un concorso.

Di fatto, come in tutti i settori dell’attività umana, anche in quelli della cultura e dell’arte chi non ha l’obbligo di dimostrare ogni giorno il suo valore e di competere senza troppe protezioni con gli altri soggetti finisce con l’offrire prodotti e servizi mediocri, perché non teme né la concorrenza, né il giudizio (e la bocciatura) degli utenti. Lo dimostra il caso dell’università italiana, dove gli atenei non sono incoraggiati ad assumere i professori migliori o a fare ricerca di qualità, perché l’entità dei fondi pubblici che ricevono è indipendente da questi due elementi, e il titolo di studio ottenuto con impegno in un’università seria vale quanto quello strappato senza fatica in un’università cattiva. Perché, alla fine, l’arte e la cultura “di stato”, oltre a non essere libere, non possono essere nemmeno buone.

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